L’emigrazione capracottese nel Nuovo Mondo

Riunione di emigrati a casa della famiglia Trotta di Capracotta a Manogasta (Argentina)

Sono oltre milleduecento i capracottesi che emigrano verso il Nuovo Mondo dall’anno 1879 all’anno 1925. In un primo momento in Argentina, successivamente (e in maniera più consistente) negli Stati Uniti d’America. Sono queste le informazioni che emergono comparando un accurato studio condotto da Antonio Virgilio Castiglione sull’emigrazione capracottese oltreoceano tra il 2007 e il 2012 e i database on line di siti internazionali di ricerca genealogica e di Castle Garden ed Ellis Island, le due storiche stazioni di accoglienza degli emigranti a New York. Si tratta di una ricostruzione sicuramente incompleta per alcuni limiti tecnico- burocratici degli elenchi consultati (la trascrizione on line dei registri cartacei di sbarco ha grosse lacune, la compilazione delle schede personali con nomi, cognomi e città di origine risulta in molti casi influenzata dalle regole fonetiche della lingua degli Stati di arrivo, ecc.), ma che, da un punto di vista generale, conferma una tendenza che possiamo ricavare da altre fonti. Secondo l’Inchiesta Jarach, infatti, i capracottesi emigrano già a partire dal 1870, cioè ben nove anni prima dei più antichi dati in nostro possesso. Ma, secondo quanto scrive Luigi Campanelli (1854 – 1937) nel suo volume “Il Territorio di Capracotta” (1931), essi si dirigono inizialmente proprio verso il Paese sudamericano e poi verso gli Stati Uniti d’America: «L’emigrazione all’estero si iniziò verso l’Argentina, ove molti ne han conseguito ricchezze ed elevazione intellettuale; più, sembra, che negli Stati del Nord per dove l’emigrazione seguì più numerosa».

Le cause dell’emigrazione

«Il clima rigido di Capracotta, la lunga permanenza della neve con la conseguente improduttività agraria, il ristretto ambiente paesano, costringono i nativi ad emigrare. L’emigrazione invernale dei lavoratori manuali, dei pastori è abituale e antichissima. Ma coloro che raggiungono una professione liberale, perizia in mestieri o coloro che non trovano stabile occupazione, sono necessariamente indotti ad allontanarsi definitivamente […]. Capracottesi ed oriundi capracottesi sono disseminati in innumerevoli comuni del Mezzogiorno; ciò fece dire a un bello spirito: “Quando Colombo scoprì l’America vi trovò un capracottese”. Oggidì ve ne sono moltissimi». Il volume storico del 1931 di Luigi Campanelli costituisce, per noi oggi, una fonte molto attendibile per comprendere le vicende di Capracotta all’epoca della grande emigrazione oltreoceano. L’autore, infatti, non solo è un raffinato cultore di storia locale ma – soprattutto- un osservatore diretto e qualificato di quegli avvenimenti per essere stato uno dei principali protagonisti della vita politica e amministrativa della nostra cittadina prima come consigliere comunale e, poi, come sindaco per ben dieci anni consecutivi (1895 – 1904). «Già questo avvenne (l’abolizione delle Collegiate con la conseguente confisca di beni e redditi, ndr) perché il nuovo Governo d’Italia unita non fu un governo Italiano, ma Piemontese- scrive Campanelli-. Esso venne ad insediarsi fra noi nell’ignorantissimo preconcetto, già tenuto da Napoleone, di una Italia Meridionale inesauribilmente ricca e sfruttabile; per cui subito vi sguinzagliò numerosi suoi agenti fiscali. Dai quali i sudditi rimasero assai turbati soprattutto pei metodi introdotti abbastanza arbitrari di accertamenti e di riscossioni, cui si aggiunsero i disagi della introduzione della carta moneta, del sistema metrico decimale, dei nuovi codici, delle nuove leggi dei moltiplicati obblighi del Bollo e Registro. Poco appresso vennero il corso forzoso, l’obbligatorietà dei canoni sulle locazioni di Puglia, il prestito forzoso per la guerra del 1866; insieme ad un forte rincrudelimento del brigantaggio, la tassa sul macinato. Da questi molteplici aggravi diverse famiglie agiate qui restarono completamente rovinate e tutte indistintamente ne furono finanziariamente menomate o scosse. Seguì poi la sperperazione del vistoso patrimonio ecclesiastico di tutto il mezzogiorno». Campanelli sottolinea che «le ricchezze così spillate alle nostre provincie» non furono impiegate per finanziare un forte piano di sviluppo infrastrutturale delle regioni meridionali ma semplicemente «andarono a beneficio delle settentrionali». Così, «i nostri comunelli restarono con le mulattiere per sole vie di comunicazioni, traversate ed interrotte da frane, da corsi d’acqua, senza ponti o ripari di sorta, con le campagne e le grandi strade di traffico infestate da malviventi; privi quasi tutti di cimiteri, di acquedotti, di scuole; e, quando essi dovettero aprirsi le strade, costruirsi i pubblici edifici, avere le scuole e le sepolture, scavarsi gli acquedotti, furon costretti a farseli a proprie spese, colmandosi di debiti ed aggravandone in conseguenza le derelitte nostre popolazioni. Queste si sottrassero pian piano all’estrema miseria e selvatichezza non mai per aiuti di governi; ma dalla dedizione ai più duri lavori od ai mestieri anche più umili nelle Puglie, nelle grandi città e poi in altre terre, principalmente nell’America meridionale e settentrionale e tutto questo è noto».

Gruppo di emigrati capracottesi a Parkersburg (West Virginia) negli Stati Uniti d’America
Gruppo di emigrati capracottesi a Parkersburg (West Virginia) negli Stati Uniti d’America

Argentina e Stati Uniti d’America

Secondo i dati in nostro possesso, dunque, i capracottesi arrivano in Argentina a partire dall’anno 1879, attirati dalla forte crescita economica del Paese legata all’ambizioso progetto statale di colonizzazione agricola del territorio nazionale. Tarcilla Carnevale, Antonio, Giuseppe e Nicola (di appena 8 mesi) Paglione sbarcano a Buenos Aires l’8 novembre del 1898 dal piroscafo Sirio, tristemente famoso per essere naufragato nel 1906 di fronte alle coste del Capo Palos a Cartagena. Molti si fermano nella capitale, Buenos Aires. Alcuni raggiungono Córdoba, San Luis e Tucumán. La maggior parte si trasferisce a Lobería e, soprattutto, a Santiago del Estero, che, a buon diritto, può essere considerata una sorta di “Capracotta Due”. Sono giovani: pochi superano i trent’anni d’età. Si dedicano alla coltivazione della canna da zucchero e della vite, producono formaggi e vino, aprono attività commerciali e si distinguono come sarti. Appartengono alle famiglie Angelaccio, Battista, Bonavolta, Bucci (Di Bucci), Carmosino, Carnevale, Carugno, Castiglione, Catalano, Colacelli, Conti, D’Onofrio, Del Castello, Di Lorenzo, Di Luezzo (Di Luozzo), Di Lullo, Di Nardo, Di Nucci, Di Rienzo, Di Tano e Di Tanna (oggi in qualche caso trasformato in Dettano), Di Tella, Fiadino, Ianiro, Labate (Labbate), Matteo, Monaco, Paglione, Pettinicchio, Policelli, Pollice, Sammarone, Santilli, Sozio, Stabile, Trotta e altre ancora oggi scomparse a Capracotta. I primi nostri compaesani arrivano, invece, negli Stati Uniti tra il 1885 e il 1889. Ma sono casi piuttosto limitati. La vera e propria emigrazione capracottese verso il Nord America inizia soltanto a partire dal 1890 per crescere vertiginosamente negli anni  successivi. Nel giro di trent’anni, oltre mille capracottesi sbarcano nei porti americani di New York City (a Castle Garden prima ed Ellis Island dopo) e Boston dirigendosi principalmente nel ricco quadrilatero industriale composto, tra il New Jersey centrale e la Pennsylvania orientale, dalle città di Bristol, Burlington, Philadelphia e Trenton, e a Brooklyn, New Jersey City, New York City, Parkersburg, Pittsburgh, Pueblo, Tercio e Youngstown. La maggior parte dei capracottesi arriva negli Stati Uniti d’America per la prima volta: raggiungono amici e parenti (padri, fratelli, mariti, cugini e cognati) già partiti negli anni precedenti e, a loro volta, saranno il punto di riferimento per altri compaesani in futuro. Incredibilmente, nei registri di navigazione, non sono riportati pastori. I nostri emigranti si dichiarano soprattutto contadini e lavoratori a giornata. Pochi i calzolai, falegnami e sarti. Tra coloro che sono già stati sul suolo statunitense, alcuni presentano un profilo professionale più specializzato: addetti all’irrigazione, minatori e tagliapietre. Le donne sono perlopiù mogli, casalinghe e contadine. Poche le domestiche.

Capracottesi e altri emigrati negli Stati Uniti d’America, Youngstown (Ohio), anni ven
Capracottesi e altri emigrati negli Stati Uniti d’America, Youngstown (Ohio), anni venti

La comunità capracottese oggi nel mondo

Negli anni della grande emigrazione nel Nuovo Mondo, qualche capracottese parte per il Brasile. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, altri vanno in Canada e in Venezuela. Per quanto riguarda il Brasile, i dati in nostro possesso sono piuttosto esigui e non ci permettono di avere un quadro chiaro e preciso del fenomeno migratorio capracottese verso questo grande Paese sudamericano. Siamo, invece, più informati sul Canada e sul Venezuela. Andiamo in ordine cronologico. Il primo capracottese ad andare in Venezuela è Sebastiano Di Bucci. Parte nel 1948. Va nella capitale: Caracas. Nel 1953, viene raggiunto da tutta la famiglia. Per quanto riguarda il Canada, il primo capracottese arriva nel 1955. Si chiama Vittorio Paglione. Raggiunge il cognato, Giuseppe Marcovecchio, a Leamington (Ontario) e, a sua volta, chiama a raccolta tutta la famiglia. A partire dalla metà degli anni ’50, gli emigranti capracottesi abbandoneranno le destinazioni americane e prediligeranno le città industrializzate del Nord Italia e dei Paesi europei: Belgio, Francia, Germania e Inghilterra su tutti. Oggi, la comunità capracottese è sparsa in ogni angolo della Terra. Nonostante le distanze chilometriche, le differenze di lingua e il passaggio delle generazioni, resta in tutti i suoi membri un profondo legame con la propria cittadina di origine: un legame che si manifesta concretamente e si rinforza ogni tre anni, l’8 settembre, quando migliaia di capracottesi tornano a Capracotta per partecipare alle celebrazioni religiose in onore della Madonna di Loreto. Non a caso, «Z’arvɘdémɘ all’òzzɘttiémbrɘ» è una delle poche frasi del dialetto capracottese conosciuta e perfettamente compresa in tutta la comunità. Essa non rappresenta soltanto una generica formula di saluto tra capracottesi ma è un augurio a rivedersi e a rivedersi a Capracotta! Insomma, un elemento identitario, al tempo stesso relazionale e devozionale, fortissimo al pari della croce di Monte Campo o della superba mole della Chiesa Madre.

 

Francesco Di Rienzo

Dal volume “A la Mèrɘca. Storie degli emigranti capracottesi nel Nuovo Mondo”, AA.VV., Amici di Capracotta, Cicchetti Industrie Grafiche Srl, Isernia, 2017