Le scarpe

La mia bisnonna materna, Mammuccia Pòrzia (bisnonna Preziosa Comegna), restò vedova giovanissima con tre figlie di 6, 4 e 2 anni da tirare su; suo marito Serafino esercitava il mestiere di sellaio e abitualmente conciava le pelli che gli servivano. Morì agli inizi del 1899, nel giro di pochi giorni debilitato da una infezione trasmessa forse dalla puntura di una mosca; verso la fine dello stesso anno morì per un incidente domestico anche la piccola Angiolina.

Non superò mai quelle dolorose perdite e portò il lutto per tutta la via;  vestita di nero, quando meno te l’aspettavi,  muovendosi silenziosamente veniva a trovarci alla Fundɘióne;  quasi sempre dalle tasche della sua gonna lunga fino ai piedi, tirava fuori un confetto per me. Ma la cosa più sorprendente di Mammuccia Pòrzia era che d’estate ai piedi calzava non scarpe ma rɘ pedalucciɘ, calze rinforzate. E non era la sola che girava per Capracotta che rɘ pedalucciɘ! Le scarpe erano un lusso, qualcosa di prezioso e logicamente costoso; raramente qualcuno ne possedeva più di un paio e quelle che teneva erano buone per tutte le stagioni. Spesso chi lavorava nei campi usava re zambittɘ, rudimentali calzature ricavate dai copertoni delle rare macchine che erano in giro;  li usava anche mio padre.

Avevo 4 anni e abitavamo da Bacchɘttónɘ perché la casa alla Fundɘiónɘ era ancora in ricostruzione e i miei genitori mi  comprarono un paio di sandaletti estivi,  con la suola di gomma  e la tomaia di pezza colorata. Quello fu il mio primo paio di scarpe ed essendo abituato a camminare scalzo, andavo in giro  tenendole in mano. Giocando giocando, alla fine del pomeriggio tornai a casa con una sola scarpetta ed a nulla valsero le ricerche di mio padre per ritrovarla.

Per quattro anni utilizzai le scarpe dimesse da Zio Emilio poi, ad otto anni  giunse il momento di ordinare a Pasqualinɘ Garòfanɘ, (Pasquale Di Tanna) mastro calzolaio capracottese che lavorava in Agnone, un paio di scarpe per me e per mio padre. Il mastro le aveva confezionate talmente a regola d’arte che le espose  ad una fiera  dell’artigianato a Campobasso e vinse il primo premio.

In piena estate il grande avvenimento: un bel paio de zappɘttunɘ (scarponacci), a punta quadra, con morbida tomaia, crɘiuólɘ (stringhe di pelle di cane) come lèacciɘ (stringhe) e robuste cɘndréllɘ (chiodi con la testa semisferica) sulla pianta e sul tacco. Appena le provai ebbi l’impressione che il piede ci ballasse dentro; mia madre mi spiegò che normalmente ai bambini le scarpe nuove si compravano più grandi di qualche numero perché crescendo…

Quelle scarpe erano ottime per camminare su terra e sulla neve, pessime sulle pietre e sul ghiaccio perché scivolavano come saponette. Uno straccetto in punta e le doppie calze contribuirono per molto tempo a renderle più comode. E veramente come aveva previsto mia madre, crebbi con loro: terza, quarta, quinta elementare e prima media. 

All’inizio della seconda media, il piede proprio non riusciva più ad entrarvi  nonostante mia madre spesso le mantenesse in acqua per un’intera notte per ammorbidire la tomaia. Anche se le cɘndréllɘ erano consumate, le scarpe famose finirono ai piedi di mio cugino Bruno Di Tanna che le portò per altri due anni.

Domenico Di Nucci

I Fiori del Paradiso