I beni della chiesa di Sant’Antonio Abate a Capracotta

La lapide dello xenodochio in via Arco a Capracotta

Jocelin de Chateau Neuf nei primi anni dell’anno 1000 portò nel Delfinato, in Francia, le spoglie di Sant’Antonio Abate avute in dono, pare, dall’imperatore di Costantinopoli. Le reliquie vennero lasciate a La Motte Saint Didier attuale Saint Antoine l’Abbaye, vicino alla città di Vienne. Qui nel 1095 sorse una comunità laicale, con fini ospedalieri, a seguito del voto fatto dal nobile Gastone, che aveva avuto un figlio guarito dall’ergotismo, per grazia ricevuta dal santuario di Saint Antoine Abbaye. Egli assieme al figlio e a altri cinque nobili del Delfinato formò il primo nucleo di un nuovo ordine religioso: gli Antoniani. I membri di questo nuovo ordine, chiamati anche cavalieri del fuoco sacro, si dedicavano alle cure degli ammalati di herpes zoster, detto non a caso anche fuoco di Sant’Antonio, e di ergotismo che era provocato soprattutto dall’ingestione di segale cornuta. Gli Antoniani usavano soprattutto il grasso di maiale come emolliente per le piaghe provocate dal fuoco di Sant’Antonio, per questo nei loro possedimenti allevavano spesso i maiali che simbolicamente venivano raffigurati anche nelle chiese dell’Ordine. Venivano anche chiamati i “cavalieri del tau”, per la loro divisa che era formata da una veste e da un manto neri, con una croce di sole tre braccia di colore azzurro, cucita sopra il cuore. L’Ordine lasciò traccia del suo passaggio attraverso una serie pressoché infinita di ospedali e luoghi di culto dedicati a Sant’Antonio Abate distribuiti in tutta Europa.

Anche a Capracotta esisteva una chiesa dedicata a Sant’Antonio Abate con annesso Xenodochio (o Ospedale) nei pressi dell’attuale via Arco e lo testimonia la lapide murata nella facciata di una delle case.

Non sappiamo se la casa con la lapide fu distrutta dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale e se la sua collocazione attuale sia quella che aveva originariamente sulla facciata dello Xenodochio ricostruito dopo il 1720.

Cosa dice la lapide? Tra il 1720 e il 1721 fu demolito l’antico xenodochio che era diventato fatiscente soprattutto per l’incuria. Sono passati circa 60 anni dalla terribile peste del 1656 e forse l’incuria fu provocata proprio dalla decimazione della popolazione. La lapide riporta che lo xenodochio fu riedificato dalle fondamenta e le spese furono affrontate anche grazie ad un lascito testamentario di Don Filippo del Baccaro (morto il 10 settembre 1677). Un documento del Libro delle Memorie, datato 10 marzo 1720, cita una lite tra il Vicario della Curia Vescovile e l’Università anche in merito al testamento di Don Filippo del Baccaro; se ne deduce che la ricostruzione sarà avvenuta dopo tale data.

Ma cos’era in effetti uno Xenodochio? Il vocabolo latino deriva dal greco e indicava il luogo dove si accoglievano in modo gratuito gli stranieri o gli ospiti e nella maggior parte dei casi si dovette trattare di istituzioni di piccole dimensioni. Secondo la tradizione il primo Xenodochio fu istituito dal papa San Cleto che nell’80 d. c. trasformò la sua casa in un ospizio per pellegrini con annessa Chiesa. Nel Concilio di Nicea del 325 inoltre venne sancito l’obbligo per le diocesi di destinare un luogo all’ospitalità per pellegrini e per i bisognosi. Vi erano xenodochi sia nelle città che fuori le mura. Logicamente quelli fuori le mura consentivano ai pellegrini di trovare rifugio anche quando le porte delle città erano chiuse.

Infatti era consuetudine che ad una certa ora del pomeriggio suonavano 21 rintocchi di campana per avvisare chi era fuori le mura che era ora di rientrare perché a breve le porte sarebbero state chiuse.

Lo xenodochio di Capracotta nei documenti è citato sempre come Ospedale. Possiamo trarre le notizie da alcuni documenti registrati nel Libro delle Memorie, dalla Numerazione dei fuochi del 1732 e dallo Stato delle Anime del 1736. Il più antico documento pervenutoci in modo completo, contenuto nel Libro delle Memorie, è datato 1548 e riguarda l’inventario delle rendite, provenienti essenzialmente da terreni, della Chiesa di Sant’Antonio di Vienne.

Questo documento fu redatto dal notaio Nicola Iannucco a seguito di richiesta di Berardino Carfuni di Capracotta e alla presenza di Donat’Antonio de Carpenone, Rocco Campana di Capracotta e Nicola Antonio di Juliis. Come da ogni documento, anche da questo si ricavano notizie interessanti:

– vi è scritto testualmente «Ospedale seu Chiesa» cioè l’Ospedale e la Chiesa sono la stessa cosa;

– la Chiesa è extra moenia, cioè fuori le mura, ed è formata da 5 membri coperti;

– la Chiesa possiede anche una casa dentro la Terra dove si dice «lo Piano della Ripa».

Dallo stesso documento, oltre agli arredi della chiesa e ai quasi 40 tomola tra terreni e prati, apprendiamo che l’Ospedale possiede tra l’altro:

– 5 letti forniti quindi poteva ospitare 5 persone;

– 3 schiavine, cioè coperte di panno;

– 3 coperte di lana;

– un «copertuolo» di pelle;

– un caldaro;

– un mortaio di bronzo;

– uno stipo;

– una catena di ferro;

– una «cucchiara» di rame;

– uno «scomarello» (un armadio) e pala di ferro;

– un’accetta ed altro;

– 4 somari due maschi e due femmine;

– 300 pecore «quale dice esserne morte 50 per l’annata crudele»;

– 12 capre;

– una casa compita di quanto necessita alla massaria;

– una pignata di rame grande;

– una conca piccola.

Il 17 dicembre 1776 il Papa Pio VI con la bolla «Rerum humanarum conditio» sancì definitivamente l’abolizione dell’ordine Antoniano. Non finì però la devozione per Sant’Antonio Abate e in alcuni paesi, fino a metà del secolo scorso, il 17 gennaio veniva impartita una particolare benedizione agli animali domestici.

Ancora oggi in molti paesi per devozione al santo nel giorno del 17 gennaio vengono accesi fuochi per le strade. Non sappiamo fino a quando a Capracotta la chiesa di Sant’Antonio sia rimasta in piedi né dov’era precisamente. Ma, a Capracotta come a Napoli, il Carnevale ha inizio proprio il giorno dedicato al santo, ossia il 17 gennaio e, sebbene oggi non vi siano più gruppetti di ragazzi che girano per le case rappresentando scenette comiche, è ancora viva la memoria della filastrocca che chiudeva la mascherata e citava Sant’Antonio Abate:

Ngicciɘ e ngicciɘ

dammɘ na nzégna dɘ salgiccia,

nɘ mɘ nɘ dènnɘ tròppɘ pòchɘ

ca zɘ strujjɘ pɘ rɘ fuóchɘ

dammɘnɘ giustamèndɘ

ca sand’Andògnɘ s’accundènda!

Ca sɘ la casa à pèrsɘ l’usɘ

l’annɘ chɘ vè pòzza sta chiusa!

 

Ngicciɘ e ngicciɘ

regalami un poco di salsiccia,

non darmene troppo poca

perché arrostita ne resta poca,

dammene giustamente

perché sant’Antonio s’accontenta!

Perché se la casa ha perso tale usanza,

l’anno prossimo possa restare chiusa!

È da specificare che le case che restavano chiuse nel periodo di Carnevale erano delle famiglie in lutto per la morte di qualche congiunto.

Domenico Di Nucci