Zio Colitto: un personaggio

Famiglia di falegnami da almeno tre generazioni, tranne Antonino (aveva scelto di fare il muratore), i fratelli D’Andrea avevano tutti rispettato la tradizione. Domenico era morto giovanissimo a 20 anni; Giuseppe era emigrato negli Stati Uniti; Vincenzo (papà Cienze), Nicola (Colitto) e Oreste erano restati fedeli accanto al “bancone”. “Zio Colitto”, tale era per noi ragazzi del quartiere,  si distingueva dagli altri per carattere, estro, interessi.

La bottega dei fratelli era sempre affollata: figli, apprendisti, curiosi di passaggio o alla ricerca di qualche piccola riparazione; lui lavorava invece, con l’inconfondibile camice color ambra, sempre da solo, preferiva non avere gente tra i piedi e nei momenti di ispirazione amava leggere o scrivere. La sua “singolarità” si manifestava anche in famiglia. La nascita di Consiglia, la seconda figlia, portò in casa il trambusto; tutte le notti piangeva; soffriva probabilmente di reflusso gastro-esofageo, patologia all’epoca ancora sconosciuta. I genitori non riuscivano più a dormire per cui si arrivò alla soluzione: mentre uno dei due stava con la piccola in braccio cercando di calmarla, l’altro andava a riposare in un’altra stanza.

Quando era di turno il padre la piccola continuava purtroppo a piangere; il motivo fu subito chiarito dalla risposta data da zio Colitto alla moglie zia Bambina: «Quando tocca a me la faccio piangere». Ovviamente lui metteva la testa sotto il cuscino! Era un lettore appassionato; leggeva di tutto ma la sua passione era la poesia. Poeta lui stesso e Petrarca di gran lunga il suo preferito. Le sue poesie, non tutte poiché alcune disperse a causa del secondo conflitto, sono state raccolte in un piccolo volume dai nipoti: Nicolino, Ermanno, Antonio.

Gelide erano le notti d’inverno quando le case non avevano il riscaldamento dei termosifoni; ma quando arrivava l’ispirazione bisognava pur coglier l’attimo! Ecco allora che l’estro inventivo lo portò a costruire, fissato alla spalliera del letto, un cilindro di legno, a mò di mattarello, avvolto di carta e munito di listelli di legno distanziati, che facevano da guida, tra i quali poter scrivere di getto e sotto le coperte, con una matita legata con lo spago e pronta all’uso, il frutto della sua ispirazione.

Ma l’inventore si era già manifestato con altre creazioni. Aveva ideato una slitta per la neve munita di leve laterali che ruotando, grazie alla spinta delle braccia, avrebbero dovuto riportare il veicolo in cima alla salita. L’affilatura delle seghe veniva un tempo fatta a mano; l’esigenza di un procedura  più rapida e precisa indusse zio Colitto ad inventare un valido sistema di affilatura semiautomatica, in tempi forse non ancora maturi per recepirne l’immediata applicazione.. Poco dopo, chiamato alle armi nel corso della Grande Guerra, quando ancora gli spostamenti di armi e salmerie in montagna avveniva a dorso di mulo, concepì una mangiatoia smontabile che permetteva in tempi rapidi il suo montaggio e smontaggio, ricevendone una licenza premio. Ancora visibile presso alcune vetrine di negozi del paese un ingegnoso sistema di apertura e chiusura automatica degli sportelli che evitava il fastidio della rimozione delle vetrine quando alla sera si dovevano sostituire con gli sportelli in legno.

La bottega di zio Colitto  e quella di papà Cicciotto, così come abitazioni, erano in via Nicola Falconi una di fronte all’altra. Il figlio Marino e mio padre erano legati da una grande amicizia, della quale i parenti D’Andrea  erano addirittura gelosi; per un tacito e rispettato accordo gli scurini delle finestre delle nostre cucine dovevano restare sempre aperti affinché ci potessimo sempre vedere come a costituire un’unica famiglia nella stessa abitazione.     

Passavo forse più tempo a casa D’Andrea a giocare con Ermanno e Nicolino, nipoti di zio Colitto, e ad ascoltare Peppina, nuora di zio Colitto, che ci  affascinava con i suoi racconti (inventati, veri o probabili) che a casa mia.  Non avevamo all’epoca la televisione né esistevano altri marchingegni tecnologici con cui passare il tempo. Soprattutto durante l’inverno un bigliardino artigianale, costruito da zio Colitto per i nipoti, costituiva uno dei passatempi preferiti oltre ai giochi della neve.  Ricordo infatti che stavamo un giorno compattando la neve per la costruzione di un pupazzo quando, involontariamente, colpii con la pala, per fortuna di piatto, la testa di Nicolino. Nulla di grave, tranne una piccola ferita con qualche goccia di sangue ma nessun punto di sutura. Il transitorio e breve pianto della vittima richiamò subito l’attenzione di nonno Colitto il quale non aveva nei miei confronti un particolare feeling. Venuto a conoscenza dell’accaduto tra grida e minacce  mi rincorse fino a “Piazza Cacaturo” per regolare a modo suo il conto! Per fortuna avevo gambe veloci e riuscii a distanziarlo.    

La bottega non era particolarmente grande ed oltre agli attrezzi del mestiere era munita da una serie di chiusure, a mò di segreti,  che  consentivano l’accesso ai vari armadietti solo a chi era a conoscenza dei “segreti” celati  intorno alle aperture; quelle accessibili mettevano invece in bella mostra le “manicchie” (rettangolini di legno girevoli che tenevano ferme le ante), altra  specialità di zio Colitto. Tutto ciò stimolava ovviamente la nostra curiosità. Un giorno, probabilmente festivo, approfittando dell’assenza del padrone, creammo con Nicolino ed Ermanno lo scompiglio in bottega per costruire sul banco di lavoro ed attorno ad esso, un palco per la recitazione servendoci di vari fogli di compensato ivi accatastati. Al rientro del nonno nessun rimprovero ai nipoti, responsabili quanto e più di me dell’opera; fui incolpato del fatto e cacciato  in malo modo.

La concessione della “pensione di anzianità vecchiaia” fu un evento epocale; per tantissime persone fu un vero e proprio fattore di sopravvivenza. Per ottenere “la libretta” di pensione era necessario tra l’altro dover disporre di una fotografia.

Tra le varie passioni di zio Colitto c’era anche quella della fotografia; aveva perciò attrezzato un piccolo laboratorio nel quale si cimentava talvolta anche in azzardate sperimentazioni. Vi fu pertanto un certo via vai di anziani presso la sua bottega; tra essi un signora non certo rinomata per la sua bellezza e che ricordo ancora. Al momento di ritirare la foto non gradì affatto il ritratto che, a suo dire, era riuscito male a causa dell’imperizia del fotografo. Senza scomporsi la risposta di zio Colitto fu “sià ch’ vuò fa? Mannace n’altra” (sai cosa vuoi fare? Mandaci un’altra donna). Sul momento la signora non ne afferrò il senso; ma dopo averci riflettuto tornò indietro e le grida furono sentite per tutto il vicinato! La vetrinetta con le foto di vari soggetti del paese, impettiti in bella posa, pendeva di giorno sul muro di casa nostra, di fronte alla bottega di zio Colitto.

Gli ultimi anni, dopo la morte della moglie, viveva da solo anche se spesso si  recava a Milano a casa di Marino e dei nipoti; era completamente autonomo e provvedeva anche alla sua cucina. Era un fautore del “Fast food” ante litteram. Lo vedevamo infatti spesso davanti alla finestra, con le spalle rivolte all’esterno, mangiare sbrigativamente, in piedi.  Stare seduti a tavola era per lui una perdita di tempo!  «Il Padreterno avrebbe dovuto fornirci di uno sportello sul torace, da aprire al momento giusto, attraverso il quale vuotare il piatto, meglio ancora una pasticca, e richiudere subito!».

Quando il tardo pomeriggio usciva per recarsi alla “Società artigiani” per quattro chiacchiere con gli altri soci ed il tempo minacciava pioggia, vedevamo spuntare da sotto la giacca la punta di un ombrello. Portarlo in mano era per lui un impiccio. Ad un bottone cucito sotto la giacca aveva fissato una specie di anello sul quale, in caso di necessità, appendeva l’ombrello.

Per un breve periodo, curioso com’era di esplorare campi a lui sconosciuti, in epoca in cui solo qualche rara signora di buona borghesia ne faceva discreto uso, si cimentò con improbabili misture da utilizzare per  la tintura dei capelli; i risultati assolutamente scoraggianti  lo indussero però a desistere!

Mi è stato di recente raccontato che non sempre gettava i rifiuti liquidi corporei; li mischiava con la segatura per utilizzarli poi per la pulizia dei pavimenti. Gli antichi romani infatti, attraverso i “Vespasiani” (i meno giovani ricorderanno certamente la presenza di questi poco edificanti ma pratici manufatti in alcune città), raccoglievano le urine del popolo che finivano poi nelle botteghe per la tessitura per ammorbidire e sbiancare la lana!.    

Tra gli episodi che papà Cicciotto amava raccontare di zio Colitto ce n’era uno in particolare: con l’inverno alle porte, ordinò a mio padre la confezione di un paio di scarpe nuove.  Al  momento della consegna chiese il conto. «Il prezzo abituale per questo tipo di scarpe è di lire 6500; per te, per l’amicizia ed il buon vicinato  6000 lire»”.  Pronta la risposta di zio Colitto: « te ne voglio dare 7000 perché non voglio sentirmi in soggezione e togliermi il cappello per salutarti quando ti incontro»!

Non aveva avuto una vita facile zio Colitto. Nel 1943 aveva sofferto la perdita del figlio Manduccio, militare imbarcato sul piroscafo “Conte Rosso”, salpato da Napoli e diretto a Tripoli,  colpito ed affondato da due siluri lanciati da un sommergibile britannico a sud di Siracusa.  Poco dopo era morte la moglie, zia Bambina. Nel 1966 infine morì l’amatissimo Marino.

Così lo descriveva Domenico D’Andrea (il maestro Minguccio), figlio di Antonino suo fratello:

“Negli ultimi anni, quando l’età avanzata t’aveva ingiunto il riposo, ti ritraevi nella tua bottega e lì, inforcati gli occhiali, ti assorbivi nella lettura fino a tanto che ti prendeva sonno e ti appisolavi reclinando il capo sul vecchio banco, divenuto ormai solo il tuo leggio”.

Piegato dagli anni e dall’ultimo dolore zio Colitto si spense infine nel 1973.

Vincenzino Di Nardo