Andavo alla… “posta”

In questi ultimi anni nei quali, come ho già detto, mi fanno compagnia solo i ricordi, ho ripensato spesso a uno dei passatempi preferiti del mio passato e che talora rivivo anche in sogno: la caccia, cui mi sono un po’ dedicato fin da giovanissimo, quasi sempre a Capracotta e soprattutto nel periodo estivo- autunnale.

Attualmente questo sport, che non pratico più da tempo immemorabile, non gode di buonissima fama ed è anzi oggetto di moltissime critiche da parte di associazioni ambientalistiche e non solo: ma, quella di cui parlo è una caccia di stampo antico che, a giudizio di molti esperti, si poteva davvero definire “ecosostenibile” e che comunque non recava particolari danni all’ambiente e alla sua fauna.

A questi ultimi concorrono ben altri fattori come l’agricoltura intensiva o l’impiego dei pesticidi sui quali, naturalmente, non mi soffermo ma, paradossalmente, è stato altrettanto negativo l’abbandono delle campagne e la conseguente desertificazione; a riguardo basta un solo esempio emblematico, quello delle meravigliose “coturnici abruzzesi” di cui il territorio di Capracotta, in particolare a Colle San Nicola, era particolarmente ricco fino agli anni ’60-70: poi sono del tutto scomparse sebbene l’impatto venatorio fosse già davvero minimo.

Alla mia passione per la caccia aveva senza dubbio contribuito lo stesso ambiente altomolisano e soprattutto l’esempio di altri, a cominciare da mio cugino Ezio, da sempre mia figura di riferimento: riusciva persino a fabbricarsi da solo, a regola d’arte, le cartucce, con un’attrezzatura da vero professionista; quanto poi ad una mia possibile predisposizione genetica, può essermi stata trasmessa anche da uno zio che non ho avuto la gioia di conoscere.

Ricordo infatti che la zia Michela mi raccontava del marito, Vincenzo Trotta, fratello maggiore di mio padre  Ottaviano che, come quasi tutti in famiglia, faceva il muratore e che, in alcuni periodi, lasciava il cantiere in anticipo, assai prima del tramonto, senza neppure togliersi la tuta da lavoro; con la vecchia doppietta a tracolla, si affrettava poi a percorrere alcuni sentieri di montagna per andare…”alla posta”: il che non voleva certo dire che si recasse armato in un ufficio postale come per una rapina, ma solo che si dedicava alla caccia secondo una tradizionale modalità di appostamento alla lepre.

Era noto infatti che all’imbrunire gli esemplari di questo selvatico scendevano dai monti e dai boschi per la pastura notturna, sempre attraversando alcuni varchi di passaggio, molto difficili da individuare e che, perciò, bisognava conoscere perfettamente; non sorprendeva infatti che, a ciascuno di questi luoghi, corrispondesse un nome ben preciso: di solito quello di un antico, famoso cacciatore che magari lo aveva scoperto per primo fino quasi a restarne, simbolicamente, titolare.

Sempre poi negli stessi luoghi, ma in direzione opposta, se ne poteva attendere il passaggio al loro ritorno dal pascolo: in genere all’alba molto presto e si diceva allora che si andava… “all’‘rentrata”, il loro rientro, appunto: una modalità meno diffusa ma che, parimenti, utilizzava in genere dei piccoli cumuli di pietra mimetizzati nella vegetazione, adatti spesso a far sedere almeno una persona.

Se possibile, ogni appostamento era preceduto da una attenta ricognizione del terreno nei giorni o nelle ore precedenti: il che dava precise informazioni, giudicando dagli escrementi più o meno freschi, circa la presenza della selvaggina: ma bisognava essere davvero molto abili anche come investigatori; come non citare, del resto, anche i diversi provetti “lepraioli” di Capracotta nella caccia di movimento in campagna e senza neppure l’aiuto dei cani!   Ne ricordo affettuosamente alcuni come Antonio Mendozzi o Giovanni Catalano ed altri che riuscivano incredibilmente a vedere una lepre a distanza come nessun comune mortale sarebbe mai stato in grado di fare.

 Alla “posta” si poteva andare da soli come sembra preferisse lo zio Vincenzo ma spesso un intero gruppo di cacciatori si disponeva, restando a debita distanza l’uno dall’altro, lungo il pendio della montagna; anche così facendo, tuttavia, in tanti pomeriggi il silenzio restava assoluto, senza che echeggiasse nessuno sparo e quindi senza che si potesse avvistare alcuna lepre.

Restava comunque immutato il fascino di quell’attesa spasmodica, nel misterioso stormire delle foglie di cui avevo apprezzato l’incanto già quando, come dicevo, ero solo un accompagnatore; mi dispiaceva il pur minimo disagio che provocavo cercando, in qualche modo, di trovare spazio anch’io per sedere alla… “posta” senza pregiudicarne l’esito importante.

Quanto al silenzio assoluto da parte mia, nessuno avrebbe potuto dubitarne ed è tuttora emozionante ricordare quei lunghissimi minuti: le ombre di alcune piante, all’imbrunire, davano l’illusione di un mondo da favola e alcune di esse, neanche a dirlo, sembravano proprio le orecchie di una lepre; era pure frequente la sorpresa iniziale di una volpe, vera super-esperta di caccia alla “posta” o, secondo il racconto dei più anziani, anche di un lupo in cui non ho mai avuto la ventura di imbattermi.

Terminato il mio tirocinio venatorio, riuscii ad ottenere il consenso legale dei miei genitori per la licenza di porto d’armi a soli 16 anni, ma sarei diventato un…” cacciatore” solo con un fucile; mi piace perciò ricordare l’affettuosa disponibilità di Vincenzino Catalano, anche un po’ mio parente e conosciuto come “il barbiere”: fu lui infatti a cedermi in prestito, inizialmente, un vecchio calibro 12 a cani esterni.

Solo un anno più tardi ebbi la soddisfazione di imbracciarne uno mio, un moderno “Gitti” calibro 12 a cani interni che mi aveva, incredibilmente, regalato la nonna Guglielma: lo avevo acquistato a Campobasso, nella storica armeria Maglione, al costo strabiliante di ben 70.000 delle vecchie lire.

Fu così che, proprio nel giorno di apertura della caccia, fui accolto ufficialmente nel gruppo dei “veterani” che, nel pomeriggio, sarebbero andati “alla posta”: tutte le loro informazioni confermavano la presenza di diverse lepri in località “prato di Caporicci”, lungo la dorsale di monte Capraro, verso la famosa sorgente di “Pesco Bertino”.

Come giovanissima “matricola”, non potevo certo sperare che mi venisse assegnata una delle “poste” più gettonate: mi affidarono infatti una delle prime, un po’ scomoda perché collocata dietro un grosso masso su cui, comunque, si poteva appoggiare il fucile restando in piedi; i più anziani invece, compresi certamente mio cugino Ezio, il marito di mia cugina Gilda, Gilberto Fazzini e lo stesso Vincenzino Catalano, si allontanarono per presidiare il pendio più boscoso a mezza costa.

Erano trascorsi pochi minuti e soprattutto c’era ancora molta luce del giorno allorquando comparve, incredibilmente, una grossa lepre che procedeva a saltelli nascondendosi a volte tra i sassi e la vegetazione; il cuore mi batteva forte ma, dopo averla colpita senza difficoltà, corsi subito a recuperarla con l’idea di nasconderla e di ricominciare l’appostamento come se nulla fosse accaduto.

Più tardi, quasi a sera senza che si fosse sentito alcun altro rumore, mi raggiunsero i “maestri”, cui feci credere di aver sbagliato il tiro ed è meglio che sorvoli sulle colorite espressioni di disappunto che usarono: finché, come un prestigiatore dal cilindro, mostrai loro il mio primo carniere della mia prima vera “posta”, nel primo giorno di caccia del 1960 e con il mio primo (e unico) fucile: ottenni così, finalmente, solo parole di elogio.

Mi restò la grande sorpresa che, davvero eccezionalmente in ambiente venatorio, avesse trovato conferma la famosa massima che dice:

“beati gli ultimi perché saranno i primi”.

Pagherei adesso chissà cosa pur di rivivere davvero, in una sera come quella, la meravigliosa esperienza della “posta” che ho voluto raccontare: accetterei persino di indossare i panni di un fotografo, piuttosto che quelli di un cacciatore ed è…tutto dire!

Aldo Trotta