La tresca, ovvero la trebbiatura

Un altro mestiere stagionale è stato da tempo soppiantato dalla meccanizzazione agricola: re mettetore (il mietitore). Fino alla metà del secolo scorso erano tanti i campi di grano che tappezzavano di giallo la campagna capracottese e nonostante le terre fossero in media a 1300 metri sul mare, quasi ogni famiglia destinava buona parte dei propri terreni alla coltivazione del prezioso grano. Logicamente la coltivazione del grano richiedeva un grande impegno: per l’aratura  e la semina si ricorreva a re ualane (l’aratore) che rivoltava il terreno con l’aratro  da mattina e sera e che incitava i buoi o le mucche nei momenti di stanchezza pungendo, anche se solo superficialmente, i loro glutei con il chiodo che era ad una estremità di una lunga asta detta verga; all’altra estremità vi era una palettina  che serviva a ripulire l’aratro quando vi ci si attaccava troppa terra. Poi, una volta cresciute le piantine, bisognava armunnà e zappeleià cioè estirpare le erbacce a volte a mano ed altre volte con piccole zappe dette zappitte. Nonostante  si tentasse in tutti i modi di consentire alle preziose piantine di crescere senza concorrenti, era inevitabile che papaveri, fiordalisi, coietto (ciabbuttèlle), tianne (picris), loglio ed altre erbacce fossero presenti ed a volte nel campo invece di predominare il giallo delle spighe mature si creava  una naturale e splendida tavolozza di colori. Quando il grano era pronto per essere raccolto ognuno si regolava a modo suo: l’intera famiglia era impegnata nella mietitura e se le forze non bastavano si ricorreva ai mietitori di professione.

Oltre duecento esperti mietitori giungevano verso la fine di luglio di ogni anno,  offrendo le loro prestazioni: aprivano la stagione nei paesi costieri e la chiudevano a Capracotta che era l’ultimo paese dove si recavano; quasi sempre erano organizzati in squadre affiatate che si spostavano a piedi trasportando a spalla quel poco che occorreva; pochi vestiti, una coperta, la falce e le canne salvadito che, quando non utilizzate, erano attaccate alla cinta dei pantaloni e muovendosi producevano un caratteristico suono. La sera  si riunivano in Piazza Stanislao Falconi, seduti in cima alla scalinata davanti lo Sci Club e lì avveniva la contrattazione per il giorno dopo: non tutti trovavano il lavoro ed allora anche la mattina successiva erano lì ad aspettare che qualche ritardatario li chiamasse. Chi veniva assunto aveva diritto, oltre  alla paga, alla colazione e al pranzo  sul campo di grano e alla cena nella casa del proprietario. Quasi ogni anno tornavano gli stessi mietitori ed allora erano già conosciuti: se erano stati trattati bene l’anno precedente, erano loro stessi a visitare le famiglie dove avevano già lavorato. Dormivano nelle stalle o nelle paglière (locali dove si conservavano il fieno e la paglia).

Normalmente una volta sul campo da mietere procedevano dividendosi i compiti: il lavoro continuo e ripetitivo li rendeva abili e veloci; le spighe tagliate le trattenevano nella mano sinistra fino a quando era possibile, poi le depositavano a terra ed avevano così formato una mannélla; uno di loro, dopo aver estirpato con le radici un ciuffetto di spighe, le arrotolava con maestria dalla parte delle radici, vi raccoglieva le mannélle, le affastellava e riunendole le legava aiutandosi con le ginocchia: formava re manuocchie (un covone). Ogni covone in media pesava una decina di chilogrammi. Papànonno( mio nonno), che spesso seminava il grano in  buona parte della Vecènna, si recava a contattare i mietitori che gli occorrevano sempre in tarda mattinata e così tirava anche un poco sul prezzo.  I mietitori si davano il ritmo di lavoro cantando malinconiche canzoni spesso incomprensibili; era un duro lavoro che spezzava la schiena e che richiedeva enormi sacrifici. E mano mano, passato il periodo di grande richiesta, la Piazza di sera si svuotava e così come  erano arrivati, i mietitori ripartivano senza dare nell’occhio.

Ma il lavoro di raccolta non era terminato; con cavalli e asini o con traglie (slitte), i covoni venivano trasportati o a Re Cuasino o alla Madonna; agli asini ed ai cavalli veniva attaccato alla varda (basto) uno speciale attrezzo chiamato carruchela adatto al trasporto dei covoni; sul muso dell’animale veniva posta una speciale retina che impediva loro di mangiare le preziose spighe  durante il trasporto. Scelto il posto adatto, si costruiva la manecchièra (casetta di covoni): non era facile posizionare i covoni né tantomeno disporli in modo tale da non far crollare tutto; inoltre in caso di pioggia, l’acqua doveva scivolare via cercando di impregnare meno covoni possibili. Papànonno  era molto bravo a mettere su la manecchièra ed era un piacere osservarlo mentre ginocchioni disponeva uno dopo l’altro i covoni che noi tutti gli passavamo.

Nella zona dove sarebbe poi arrivata la trebbiatrice (la machena pe trescà, la trebbiatrice, che a re Casine era sempre quella de Ze Vengiénze Re Tianne detto anche Re Mulinare, Zio Vincenzo Di Tanna), ferveva una frenetica attività e si aveva la sensazione che venisse messo su un piccolo e caratteristico paese, con tante  estemporanee casette costruite apparentemente senza un piano regolatore ed ognuna diversa delle altre. Ogni tanto ognuno andava a controllare la sua manecchièra che restava lì fino a quando non arrivava il turno di trebbiare che veniva stabilito  da Ze Vengiénze. Una volta arrivata la trebbiatrice, il lavoro proseguiva  anche di notte: le piccole e caratteristiche case fatte di covoni venivano smontate e le grandi fauci della trebbiatrice divorava  i covoni che venivano catapultati in alto con una forca.

Un fastidioso pulviscolo aleggiava costantemente intorno alla macchina trebbiatrice e si infilava dappertutto irritando la pelle; lo scoppiettio del potente  trattore sempre in moto diventava un rumore a cui tutti si abituavano. Una lunga e larga cinghia collegava il trattore alla trebbiatrice e ogni tanto  si spezzava: Ze Vengiénze armeggiava sbuffando e bestemmiando nel suo caratteristico intercalare minacciando sempre che una volta o l’altra avrebbe smesso di fare sacrifici.

Ma se per  tutti trebbiare era un lavoro per noi ragazzi era l’occasione per divertirci: spesso armeggiavano con enormi matasse di filo di ferro ed aiutavamo a confezionare i fili su misura per legare le balle; scalavamo le cataste di balle o giocavamo a chiuppa (a nascondino) tra le manucchière. Il grano uscendo da alcune bocchette riempiva velocemente i sacchi già pronti, mentre la paglia compressa in balle legate con filo di ferro formava una nuova costruzione; di lato usciva la pula detta da noi cama. Dopo una ventina di giorni anche il lavoro di trebbiatura terminava e nello spiazzo  ormai deserto restava un’enorme montagna di cama che, prima che venisse incendiata, consentiva a noi bambini giochi di vario genere se non addirittura tuffi. Un sottile filo di fumo, che durava qualche giorno, segnalava che la montagna era  accesa e bruciava senza fiamma.

Ma il grano appena trebbiato doveva essere lavato ed ecco che intorno ad una delle tante fontane armeggiavano donne che cercavano di separare il grano da pezzetti di spighe e dai semi delle piante infestanti. Il grano lavato veniva steso per due o tre giorni, nelle ore di sole, su appositi teli chiamati  racane. Quando era finalmente asciutto veniva riposto finalmente in  enormi casse, re casciuni, che avevano in basso delle caratteristiche aperture da dove prelevare il grano  per portarlo al mulino.

Dove la trebbiatrice non poteva arrivare, i contadini utilizzavano asini, cavalli e muli per la tresca sull’aia. Passando e ripassando in circolo sulle spighe sparse per terra, i chicchi venivano separati dalla paglia che mano mano era tirata via. Alla fine restava sull’aia una massa formata da chicchi, pula, pezzetti di spighe e terriccio; prima di arrivare dentro re cuascione, quella massa veniva vagliata che le crevèlle o re crevellune (appositi setacci) o approfittando di un filo di vento lanciata in aria con speciali pale di legno una  o più volte fino a quando la maggior parte di scorie veniva eliminata. Poi seguiva il lavaggio.

Attualmente  sono pochi i campi coltivati a Capracotta e quasi nessuno semina il grano; dell’estenuante lavoro dalla semina al raccolto si sono perse le tracce; i pesticidi vengono utilizzati per distruggere le erbacce, i trattori sostituiscono re ualeane, le mietitrebbie divorano le spighe a ritmi impressionanti ed i ragazzini non accendono più le stoppie, la sera del 26 luglio, giorno di sant’Anna, per cuocere nella cenere  patate novelle rubacchiate nei campi.

Domenico Di Nucci