Le lavandaie

Queste due foto del 1918 colgono alcune popolane nell’atto di fare il bucato alla Fonte del “Cummenisce” e al Verrino; quasi tutte lavavano i panni di famiglia; altre lavavano, dietro compenso, i panni dei benestanti. Era un’operazione complessa che richiedeva fatica e maestria. Nei lunghi mesi invernali, cioè da novembre a aprile, non si poteva scendere alle sorgenti del Verrino per le avverse condizioni meteorologiche. I capi d’abbigliamento, duri e grezzi, venivano realizzati in casa con i telai ed erano prevalentemente in lana, cotone e canapa. Per un verso proteggevano meglio dal freddo e caldo lasciando il calore corporeo costante, dall’altro, però, richiedevano molta energia e forza per lavarli anche perché erano indossati per molti giorni consecutivamente. Anche il sapone era fatto in casa dalle donne.
L’operazione bucato consisteva in due momenti. Si andava a piedi al Verrino con in testa i canestri carichi di panni da lavare attraverso un sentiero tortuoso e in discesa. A circa metà strada c’era una piccola piazzola in pianura chiamata “Pesatur” e lì le lavandaie sostavano per prendere fiato e quindi “posavano” i panni. Una volta arrivate sull’argine del corso d’acqua, si inginocchiavano vicino una pietra levigata che ciascuna “adottava” e iniziava l’ammollo e poi l’insaponatura e lo sfregamento sulla pietra o tra le nocche delle mani ove c’erano le macchie più resistenti bilanciando con la massima attenzione lo sfregamento altrimenti i panni, nonostante la robustezza e spessore, si sarebbero logorati o strappati. Dopo tanto impastare e sfregare c’era il risciacquo; di solito, essendo panni molto unti, occorreva farne tre e tre stesure sull’erba, perché l’azione combinata del calore e della luce del sole della conca del Verrino con il rilascio dell’ossigeno da parte dell’erba li asciugava più rapidamente rendendoli al tempo stesso bianchissimi e profumatissimi. Questa triplice operazione veniva chiamata “m’bunne e spianne”. Mentre i panni erano stesi al sole, le lavandaie si riposavano e chiacchieravano e verso mezzogiorno, pranzavano con pane, frittata con cipolle, qualche volta con patate e peperoni.
Durante il lavaggio si lasciavano andare a qualche canto. Nel primo pomeriggio, una volta ben asciugati i panni, li rimettevano nei canestri e riprendevano la strada di casa, questa volta in salita.
Nelle loro dimore era pronta una grande tina di legno: i panni venivano messi fino all’orlo del recipiente e coperti da un panno di cotone a maglia fitta perché avrebbe dovuto filtrare la liscivia prodotta dalla cenere prelevata dai camini e setacciata per togliere pezzetti di carbone. Occorreva cenere di legno duro e la migliore era di faggio. Questa liscivia avrebbe lasciato una sorta di patina protettiva che proteggeva i panni dallo sporco. Nella tina restavano per un certo periodo di tempo prestabilito e poi si toglieva un tappo di sughero posto nella parte bassa della tina per far uscire la liscivia, che veniva raccolta nel “chetture”. Il “chetture” veniva messo sul camino, sempre acceso fino ad arrivare all’ebollizione, e la liscivia concentrata veniva di nuovo riversata nella tina per eliminare la cenere, che altrimenti avrebbe fatto ingrigire i panni. La mattina successiva, le donne andavano di nuovo al Verrino con la cesta in testa; il peso era maggiore perché i panni erano inzuppati di liscivia e spesso nel trasporto ci si bagnava per lo sgocciolio. Al Verrino le più esigenti (soprattutto per i panni dei benestanti in lino e seta) rifacevano per tre volte “m’bunn e spianne”. Alla fine della giornata, improvvisavano una tirata e stirata a mano degli indumenti per preparare l’eventuale stiratura con il ferro di ghisa con carbonella, sempre prodotta dal camino, che avrebbe conferito il tocco finale, profumo e candore. A detta delle più, questa complessa operazione faceva diventare i tessuti sempre più belli e profumati, chiaramente fino a quando non iniziava il logorio ma questo sarebbe avvenuto dopo tanti anni soprattutto se si usavano quegli accorgimenti e attenzioni.

L’impegno profuso era notevole, il contatto con l’acqua fredda eccessivo, il lavaggio logorava e sfiancava, come possiamo vedere dalle due foto, soprattutto le donne anziane. Ma le due donne giovani che guardano in faccia il fotografo ci dicono anche un’altra cosa: l’incontro con l’acqua di torrente di montagna, il sole caldo, i movimenti delle mani, braccia corpo, insieme alle altre, parlando e cantando, il buon boccone di pane, l’operazione di fuoco-cenere, il rapporto con i colori e profumi della natura (erbe, pietre, il cielo immenso e azzurro-azzurro e/o celeste-celeste), ebbene tutto questo faceva sprigionare, nella fatica, anche e forse soprattutto gioia, forza, amore e la fusione con la natura, i cari, la comunità stimolava le potenzialità sovrannaturali insite nelle donne in termini di intuizione, resistenza, bellezza.

Antonio D’Andrea

Fonte: AA.VV., Capracotta 1888-1937: cinquant’anni di storia cittadina nelle foto del Cav. Giovanni Paglione”, Associazione “Amici di Capracotta”, Cicchetti Industrie Grafiche, Isernia, 2014