La storia di Lucia, la befana di Capracotta

Lucia, la befana di Capracotta. Foto: Sebastiano Trotta 

Come le più belle favole, anche questa non può che iniziare con…
C’era una volta, nel piccolo borgo di Capracotta (il cui nome è già di per sé una favola) una donna di nome Lucia. Abitava in cima a via Carfagna, all’ombra del campanile e della chiesa nella quale, per lunghi anni, era risuonata prepotente la sua voce; attraverso un portoncino, situato sulla parete di un angusto passaggio ad arco che sfocia in una piazzetta, si accedeva a una misera e buia casetta col soffitto in legno e le pareti annerite dal fumo.
Il suo aspetto? Un volto squadrato e un naso piuttosto pronunciato che sormontava una bocca larga, nella quale spiccavano due canini nell’arcata inferiore, unico residuo di una antica e robusta dentatura. Da un piccolo fibroma sulla guancia destra emergeva un ciuffetto di peli. La capigliatura appena ingrigita, raccolta in una crocchia sulla nuca, era ricoperta da un fazzolettone annodato sotto il mento; larghe spalle sormontavano una statura superiore alla norma per quegli anni. La schiena non era più eretta come una volta; gli acciacchi di una vita dura, di fatiche, di lunghe e diuturne camminate nei boschi a raccogliere funghi e frutti selvatici, da vendere poi in paese per pochi soldi, avevano piegato il busto e usurato le articolazioni. Una voce possente la contraddistingueva, con la quale si divertiva a far paura a qualche bambino impertinente; non di rado una madre spazientita ne minacciava l’arrivo per ridurre alla ragione il figlioletto disubbidiente o recalcitrante; ma era solo un gioco poiché dietro quell’apparenza burbera, palpitava in realtà il cuore di una donna dall’animo buono, povera ma fiera, laboriosa ed onesta.
Lucia conosceva i sentieri della campagna e dei boschi circostanti come pochissimi; c’erano posti dove raccoglieva quei doni della natura, noti a lei soltanto. Si spingeva spesso oltre i confini comunali fino all’abetaia di Pescopennataro, al territorio di Vastogirardi, di Agnone o giù verso la valle del Sangro, in prossimità di Colle Pecoraro, per portare in paese le erbe e i frutti della natura incontaminata. È proprio su questi sentieri, al chiudersi di una fredda giornata di dicembre, che avvenne un fatto straordinario scoperto anni dopo in una piccola lettera, scritta in un dialetto sgrammaticato, nascosta nelle tavole del soffitto della sua casa dai muratori Mario e Adriano, che così racconto…
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Il sole aveva ormai quasi fatto capolino ed io, con il mio lungo bastone ed un fascio di ceppe sulla testa, allungai il passo cercando di precedere il buio, ma la neve rallentò il mio cammino e così presto la luna sostituì il sole; mi trovai sola ma senza paura, conoscevo quei posti meglio delle mie povere e bucate tasche, ma ciò non bastò, ingannata dagli alti faggi, persi l’orientamento e mi ritrovai senza via di uscita. Mi accovacciai così nell’insenatura di un grande tronco rassegnata nell’attendere il giorno, ma improvvisamente i miei stanchi occhi videro atterra una piccola ma sfolgorante luce subito gridai:
– Cùja sié? – pensando fosse una fiaccola di qualcuno che era venuto a cercarmi, ma nessuno rispose, così mi alzai e mi incamminai.
Più mi avvicinavo e più la luce si allontanava, correvo e lei correva, mi fermavo e lei si fermava, finché ad un tratto non si mosse più e vidi un piccolo scrigno ricco di ogni tesoro, mi inginocchiai per prenderlo ma ècche na voce d’òmmene che me dice:
– N’è pe te se rieàle, Lucì…
Chiesi nuovamente:
– Cùja sié? – ed egli mi disse:
– Sono Gaspare.
Risposi:
– Che nòme ŝtràne, nen sié de ècche? – ma non mi rispose, disse solo:
– Vié che me.
Ci incamminammo ma, invece di scendere, salimmo di nuovo; io, che ben conoscevo quel posto, domandai:
– Chemmuó jéme ’ngìma e no abbàlle? – ma niente… l’òmmene z’èra ammutìte.
La luce di quell’oro ci faceva strada; tutto d’un tratto di fronte a me vidi una colonna di fumo bianco che da terra andava verso l’alto, subito esclamai:
– Scié bendìtte, re fuóche!
Certa di trovare un po’ di calore, allungai il passo ma anche questo sembrava allontanarsi man mano che mi avvicinavo, si fermava quando mi fermavo, ad un tratto si arrestò ed io mi avvicinai: n’èra fuóche ma na pónda de vràce che faceva na faccia de fumèra prefumuàta, gné chéla che dun Leopòlde aùsa alla chiesa.
Avvicinai le mani per scaldarmi un po’ ma ècche na voce d’òmmene, me fa itechà e me dice:
– N’è pe te se fuóche…
Subito chiesi:
– Cùja sié? – ed egli mi disse:
– Sono Baldassarre.
Al che risposi:
– Mah! che nòme ŝtràne, mànghe tu sié de ècche? – ma nemmeno lui rispose. Mi girai per chiedere a Gaspare: – Re canùsce? – ma non c’era più.
Tuttavia anch’egli mi disse soltanto:
– Vié che me.
Riprendemmo a camminare e finalmente jèmme pe’ la capabbàlle, per la strada nemmeno una parola, il fumo dall’alto si era trasferito sul sentiero e segnava la via da percorrere; ci trovammo ad un tratto in un largo spazio senza alberi né piante, solo neve a terra e in cielo una luna che sembrava chéla de jennàre o, mèglie ancora, re sòle de màje.
Il fumo si disperse e tutto il posto fu invaso da un odore mai sentito prima, conoscevo ogni fiore e pianta di quel posto, ma nessuno profumava così; ci rincamminammo verso il bosco, al contrario di prima, però, più ci addentravamo e più il profumo si faceva forte. All’improvviso, su un piccolo masso, vidi un vasetto, non lo toccai, ormai sapevo che non potevo toccarlo, sicché, sciuólte re maccatùre, mi avvicinai col naso e, con le mani dietro la schiena, mi abbassai, ma ècche na voce d’òmmene, ca me dice:
– Lucì, n’è pe’ te s’addóre…
Subito chiesi:
– Cùja sié? – ed egli mi disse:
– Sono Melchiorre.
Risposi stranita:
– Che nòme ŝtràne, mànghe tu sié de ècche? – ma nemmeno lui rispose, per cui mi voltai per chiedere a Gaspare se lo conosceva ma non c’era più, disse solo:
– Vié che me e chiude l’uócchie.
Non fui subito d’accordo e dissi:
– Tu sié feraŝtiére e ècche è notte: gnà c’éma arrevià alla casa? – ma lui ripeté:
– Chiùde l’uócchie e ne re japrì, finacché l’addóre nen ze n’è jùte.
Con qualche dubbio, dopo un breve battibecco, feci come aveva detto e il profumo di quell’olio mi fece strada.
Il mio bastone sembrava avesse preso vita, precedeva ogni mio passo e mi guidò per un lungo tratto, questa volta tùtte de chieàne, fino a quando non sentii più l’odore, così mi fermai. Pian piano aprii gli occhi ùne alla vòlda; mi ritrovai sotto un grande albero di noce, di fronte a me tutt’e tre l’uómmene si inginocchiarono davanti ad un mucchio di fieno e poggiarono chi re scrìgne, chi re fume e chi l’uóglie.
Ancora una volta chiesi:
– Ma cùja séte?
Si avvicinò uno di loro e mi disse:
– I doni che hai visto in questa notte non sono per te, ma per Colui che domani notte nascerà ancora una volta su questo fieno, in questo che sarà per te l’ultimo natale sulla terra…
Capii allora chi erano i tre forestieri che mi avevano accompagnato fin lì e mi inginocchiai anch’io ai piedi di quel mucchio di fieno. Diversamente da loro non avevo nulla da dare, allora dissi:
– Niénde tiénghe per il mio Signor se non chéste du cóse!
Poggiai allora il mio bastone e il fascio di ceppe, e i tre mi dissero:
– Vié che nù, la tenéme nù na cósa pe te.
Mi alzai e girammo tutti intorno all’albero, appesa ad un ramo trovai una grande calza di lana bianca archiéna d’ògne bene de Dìje, me la consegnarono e assieme dissero:
– Noi porteremo i nostri doni al Bambin Gesù anche per te. Tu invece, d’ora in poi, preoccupati di accontentare una volta l’anno ogni bambino, portando loro in dono una calza ricca di ogni bontà. Adesso, Lucia, corri prima di giorno, riprendi il tuo bastone e torna a casa.
Girai intorno all’albero e ripresi il bastone ma, nen sàcce còme, il fascio di ceppe si era legato al bastone e aveva formato una scopa, la guardai stranita ed esclamai:
– Muah!
M’incamminai verso il paese pensando e con passo svelto. Si intravedevano le prime luci della mia ultima viglia di Natale, era impossibile arrivare a Capracotta prima dell’alba. La strada da fare era ancora tanta, guardai ancora una volta incuriosita quella scopa e, all’improvviso, una voce di bambino, con riso scherzoso e divertito mi intimò:
– Lucì, mìttete a cuavàglie!
In quella notte tutto era strano e, senza pensarci, ascì facìve… la scopa si alzò e io, dòpe n’allùcche a use mié, volai sui tetti fumanti di Capracotta, con la calza stretta stretta in petto. Vedìve re sòle scì da Mondefòrte e mi affrettai a rientrare a casa, nessuno doveva vedermi.
Giunta annieànd’alla rùfa, Irene, che la mandèra ’mmieàne, mi vide scendere dalla scopa e, con gli occhi sbarrati, urlò:
– …E tu cùja sié?
Io risposi:
– Shhh… sò la Befana!

Sebastiano Trotta