Capracotta sempre in cima ai miei pensieri

Che Capracotta esistesse già in epoca normanna si ricava dal Catalogo dei Baroni normanni perché Gualterius Bodanus teneva il feudo di “Crapram Coctam” per conto di Guillelmo di Agnone, fornendo perciò due militi e due servienti all’esercito.

Il nome del paese ha sempre creato curiosità e nessuno è disposto a scostarsi dalla tradizione popolare che vuole che in un’epoca imprecisata, quando alcuni pastori tenevano le greggi al pascolo, una capra cercò di saltare il fuoco attorno al quale gli uomini si erano radunati.

La capra rimase bruciata e da ciò sarebbe nato il nome del paese. Per questo lo stemma civico ricorda l’episodio con una capra che salta il fuoco.

Nel Duecento il suo feudo fu concesso ai della Posta e successivamente ai Carafa, ai d’Evoli, ai Cantelmo ed ai Piscicelli che lo tennero fino agli inizi del secolo XVIII. Poi tornò ai d’Evoli per qualche decennio e ai Caracciolo di Santobuono finché feudatario di Capracotta divenne nel 1778 Antonio Capece Piscicelli con il titolo ducale.

Un feudo che finì male perché la sua erede, la duchessa Capece Piscicelli, dopo la caduta della Repubblica Napoletana nel 1799 e dopo la confisca dei beni, fu costretta all’esilio a Parigi con un sussidio di franco al giorno assicurato dal governo francese.

Capracotta ha una sola parrocchia dedicata a Santa Maria Assunta, ma i suoi abitanti preferiscono dividersi in santantoniari e sangiovannari, in relazione alle due chiese poste ai due estremi del paese.

E sebbene il protettore sia San Sebastiano, come si deduce anche dai nomi di tanti capracottesi, neanche una chiesa gli è dedicata perché Capracotta sta tutta raccolta nella sua chiesa Madre che, per essere posta nel più alto di tutti i paesi degli Appennini, certamente è la parrocchiale più vicina al Cielo.

Una chiesa dall’interno arioso e solenne che, sviluppandosi spazialmente in tre navate, si mostra con un’apparente strutturazione architettonica settecentesca, come ricordano le lapidi relative ai suoi restauri.

In realtà credo che nasconda nel suo impianto originario i caratteri di una basilica desideriana, cioè della stessa epoca dei primi feudatari, sicuramente legati all’abate filo-normanno di Montecassino.

Notevole il suo organo monumentale e l’altare marmoreo che è riconducibile a quei marmorari che si formarono alla scuola di Norberto Di Cicco di Pescocostanzo.

Forse proprio dopo i restauri settecenteschi il clero di Capracotta si impegnò ancora di più nel proprio ministero e così il vescovo Pitocco, il 7 ottobre 1756, concesse ai presbiteri l’insegna del rocchetto e della cappa. Un secolo dopo, nel 1854, come ci ricorda il Masciotta, Pio IX dichiarava la chiesa di Santa Maria Assunta, con grande soddisfazione del clero, Collegiata Insigne.

Essa domina con la sua mole l’intera valle del Sangro e dal suo campanile si osserva uno scenario di incomparabile suggestione che si chiude sul fondo con i monti della Maiella.

E quel campanile, che una volta era staccato dalla chiesa più antica, aveva una funzione importante nella vita del paese. Un vero e proprio gigantesco strumento musicale che, con le sue note, comunicava con il territorio annunziando cose liete e cose tristi, ritmando le ore, richiamando il popolo nei momenti di pericolo, avvertendo che a mezzo giorno ci si ferma per mangiare.

E a suonare le note era sempre un sagrestano maschio, che poteva uscire di casa anche quando faceva la neve o tirava la filippina. Perciò, quando per questioni pratiche il compito fu affidato a Carmela, che aveva la casa di fronte alla chiesa e che doveva pensare anche alle sue faccende domestiche, si pose il problema delle scampanate nel periodo invernale.

A Capracotta, come osservò un arguto venditore di terraglie napoletano, fa dieci mesi di freddo e due di fresco, così Carmela risolse il problema solo come un capracottese poteva risolverlo. Legò una fune al battaglio del campanone e, attraversando la piazza, legò il capo al davanzale della cucina.

E ogni volta che scoccava l’ora si affacciava alla finestra e, tirando la fune, neve o filippina, faceva rintoccare la campana.

Adesso il problema è stato risolto con quegli aggeggi infernali che fanno suonare le campane automaticamente, ma, togliendo quella fune, hanno tolto anche l’anima al campanile.

Allo stesso modo a Capracotta fu tolto un pezzo di cuore quando, con inaudita superficialità, fu demolita l’ultima torre angioina che ancora definiva il perimetro della murazione trecentesca.

Capracotta è bella comunque, anche se le manca qualche pezzo, perché i suoi figli e i figli dei figli, la vedono bella e si sentono capracottesi anche se nessuno, ringraziando le ASL, nasce più in quel luogo. E solo chi è capracottese può capire quanto sia importante l’appuntamento con l’altra Madonna, che è quella di Loreto, per ricordare i tempi in cui partire significava andare in Puglia per la fida delle pecore e tornare significava esistere ancora.

Ogni tre anni, l’8 settembre, cavalli bardati e cavalcati da cavalieri dal gusto un po’ folkloristico, ma con l’orgoglio di conservare una tradizione, accompagnano tra ali di folla festante il simulacro della Madonna di Loreto dalla chiesetta fino al paese e viceversa, con la segreta speranza che la Madre di Dio intervenga presso l’Eterno per assicurare la ripetizione dell’evento negli anni futuri.

Ma Capracotta è anche sport. Il suo Sci Club è tra i più antichi d’Italia e chi vuole sciare oggi può scegliere la bella pista di fondo che si snoda per 15 chilometri tra i faggi e gli abeti di Prato Gentile oppure quella per le specialità alpine a Monte Capraro.

Una gara di sci di fondo a Prato Gentile

In estate, quando il paese richiama i suoi figli da ogni parte del mondo, tutto il territorio sembra rivivere anche per chi di Capracotta non é. Così è diventato una festa dell’ospitalità quello straordinario appuntamento della pezzata che si rinnova nella prima domenica di agosto e che negli anni sessanta era nato solo per evitare che si perdesse una tradizione pastorale locale.

Franco Valente