Come ho ricordato in altri racconti la mamma Cesarina, scomparsa a 98 anni il 7 luglio 2010, aveva vissuto l’ultimo periodo della sua vita nella speranza di scrivere una vera e propria autobiografia: ne sarebbe stata certamente in grado e lo avrebbe fatto continuando a utilizzare, come di consueto, la sua penna biro; io le avevo persino proposto di intitolarla “Nascere…nella neve a Capracotta”, ma il periodo successivo al sisma del 2009, quando eravamo all’Aquila, non glielo aveva, purtroppo, consentito: dapprima per i diversi cambiamenti di residenza e poi per il progressivo aggravamento delle sue condizioni di salute; ricordavo in questi giorni che, se paradossalmente fosse ancora con noi, avrebbe compiuto 110 anni e mi conforta il pensiero che abbia chiuso gli occhi, lucidissima com’era, nella vecchia casa di Capracotta: suo amatissimo paese di elezione considerando che per ben 22 anni, dal 1937 al 1959, vi aveva svolto la professione di ostetrica, vi si si era sposata e vi erano nati i suoi figli.
Dal punto di vista teorico in Italia, già dopo il 1876 quando furono istituite le Scuole professionali, avrebbero dovuto esserci le condizioni per una certa modernizzazione del servizio ostetrico: anche nel senso della nomina capillare, in ogni comune, della cosiddetta “levatrice di comunità” o “condotta” e questo antico termine corrisponde al suo significato etimologico, quasi esclusivamente limitato all’atto di “levare” o meglio di “raccogliere” il nascituro; nel più recente vocabolo di ostetrica invece, che pure traduce l’atto di “stare davanti” alla partoriente (ob-sto), si dava già implicitamente rilievo al controllo della gravidanza e del periodo successivo al parto, quello del cosiddetto “puerperio”.
Si può intuire, tuttavia, quanto fosse laborioso, per ragioni culturali e logistiche, fare in modo che il servizio ostetrico, oggi si direbbe di primo livello, fosse finalmente affidato a persone diplomate in una Scuola legalmente riconosciuta; si può inoltre immaginare quanto sia stato lungo e difficile contrastare l’irreversibile declino, fino alla loro scomparsa, delle tante esercenti “empiriche” (le famose “mammane”) che per secoli si erano fatte carico di questa attività ed alle quali, a Capracotta, veniva dato il nome di “ammara”, un termine anch’esso derivante dalla parola “mamma”.
Prevalse infine il moderno appellativo di “ostetrica” pur risultando ancora, nel diploma della mamma conseguito a Ferrara nel 1936, la storica dicitura di “levatrice”: così fu gradualmente abbandonata la primitiva denominazione dialettale sostituita ogni tanto, nel linguaggio dei più anziani, dall’affettuoso vezzeggiativo di “mammina”.
Superfluo ripetere che allora erano abissali le differenze sociali e culturali tra le regioni settentrionali e quelle meridionali dell’Italia; in alcuni paesi dell’Abruzzo-Molise sopravviveva, ad esempio, una tradizione tutt’altro che scientifica: quella di far bere una grossa tazza di vino rosso mescolato ad alcuni aromi alle donne in travaglio di parto, come energetico o forse come blando anestetico (?); questa pratica, tuttavia, non era certamente isolata: ho avuto notizia che anche in diverse aree montuose delle Alpi era abituale l’impiego di alcoolici durante il travaglio di parto, ad esempio cognac e zucchero nella Carnia.
A Capracotta invece, mia madre ebbe subito modo di apprezzare alcune antiche consuetudini che pure, inizialmente, le avevano suscitato molta perplessità: come l’impiego della storica culla chiamata “sciònna” (da “exsomnare” – “svegliarsi”), che dava una falsa impressione di ribaltamento e soprattutto la strettissima fasciatura dei neonati: che presto imparò ad eseguire alla perfezione con grande compiacimento delle nonne di allora.
Un solo altro fattore ambientale, escludendo s’intende le bufere di neve, le creava molto disagio: la frequente necessità invernale di riscaldare le stanze da letto con un braciere; stante la relativa difficoltà di un ricambio dell’aria, era fondato il timore che si accumulasse ossido di carbonio, davvero pericoloso per un neonato e che, quantomeno, provocava una intensa cefalea.
Un altro mio racconto era dedicato alla storia dell’arrivo a Capracotta della mamma, che avevo definito “emigrante atipica” per il suo singolare percorso NORD-SUD nel 1937; avevo anche spiegato le ragioni per cui la sua prima esperienza di lavoro si fosse rivelata tutt’altro che gratificante: ed è inutile ritornare sull’argomento, ma non meraviglia che avesse corso il rischio di ritornarsene subito al suo paese, in provincia di Ferrara: cosa che poi fortunatamente non è avvenuta, altrimenti io non sarei forse neppure nato e non sarei qui a scrivere.
Suscitava molta tenerezza la cosiddetta “borsa da parto”, i “ferri del mestiere” per intenderci, da cui la mamma non si separava mai; che io ricordi, conteneva lo stetoscopio di legno, uno “speculum” per la visita ginecologica, della garza e del cotone, alcune pinze, qualche siringa di vetro, dei farmaci emostatici, delle pinze e delle “graffette metalliche” che, in emergenza, sostituivano i punti di sutura chirurgici.
Al contrario, col “senno di poi”, fa rabbrividire il pensiero che quello fosse l’armamentario con cui, anche in era pre-antibiotica, si affrontava l’esercizio quotidiano della professione ostetrica specie considerando che allora moltissime donne gravide arrivavano alla data del parto senza sottoporsi ad alcun controllo: per di più svolgendo spesso lavori pesantissimi fino all’ultimo giorno.
Non era infrequente, oltre tutto, che qualcuna partorisse da sola in aperta campagna come quella, di cui mi spiace non ricordare il nome, che diede alla luce una bimba nei pressi del torrente “Verrino” ove si era recata per lavare la biancheria; vedendola tornare in paese con una strana espressione di mistero, a quanti le chiesero cosa trasportasse nella cesta di vimini che aveva sulla testa, rispose senza scomporsi: “la citra” (“la bambina”); e si può solo intuire quanto fosse stato lungo e disagevole il sentiero in salita che aveva percorso da sola!
Non sono in grado, da inesperto in materia, di accennare alle moderne linee guida sulla sorveglianza della gestazione e alle potenzialità degli esami ultrasonografici: sia per monitorare l’accrescimento intrauterino del nascituro, sia e soprattutto per accorgersi di una sua, benché minima sofferenza; in ogni caso la maggior parte dei parametri di controllo, anche quelli già disponibili allora, non erano ottenibili in paese e così alcune, pochissime informazioni erano affidate all’esperienza e alle “mani” dell’ostetrica: addestrate quindi a riconoscere i più diversi quadri patologici e soprattutto a cogliere i primi segnali di allarme per un eventuale, sempre eccezionale ricorso all’ ospedale.
Delle indagini proponibili alle gravide più scrupolose, con edema degli arti inferiori, faceva parte la verifica della presenza di albumina nelle urine; talora si paventava, infatti, l’insorgenza di una “gestosi gravidica”, che poteva comportare non solo una grave insufficienza renale, ma anche e soprattutto delle pericolose crisi epilettiche; quell’artigianale test di laboratorio prevedeva che si riscaldasse alla fiamma un campione acidificato di urine e l’esito dipendeva dal sedimento gelatinoso di albumina che, eventualmente, precipitava sul fondo della provetta: più che un esame di laboratorio, si trattava di una specie di rito “casalingo” che attirava molto la mia attenzione e la mia curiosità da bambino.
In definitiva l’attività professionale che cerco di descrivere era davvero multiforme e non è esagerato dire che riassumeva in sé anche quella di infermiera e di assistente socio-sanitaria; uno degli adempimenti abituali infatti, era quello di richiedere il cosiddetto “pacco ostetrico”: che, spedito dagli Enti previdenziali, conteneva prodotti igienici di vario genere e soprattutto l’indispensabile per il neonato, ad esempio per le medicazioni ombelicali.
Non provo neppure a ricordare il grandissimo numero di bambini che mia madre, come le piaceva ripetere, aveva “aiutato a nascere”: aggiungo solo di averle chiesto una volta quale fosse il momento di maggiore sconforto durante la sua attività (terminata poi a Bojano molti anni più tardi); mi rispose, commuovendosi molto, che era quello in cui le campane della Chiesa annunciavano la scomparsa, allora abbastanza frequente purtroppo, di un bambino: sebbene i loro rintocchi, definiti di “gloria” nella saggezza popolare, fossero armoniosi come una Preghiera.
In definitiva non si può che definire molto impegnativa e ad elevatissimo rischio la professione ostetrica di quegli anni remoti, specie considerando che il paese era molto popolato ed erano spesso diverse le notti, anche consecutive, di cui la mamma saltava il riposo: pur restando serena perché a casa c’era la nonna Guglielma ad occuparsi di tutto.
Il parto era comunque un evento in cui la donna investiva tutte le sue energie psico-fisiche avendo accanto, come alleata e confidente, l’ostetrica; mi piace perciò sottolineare che gran parte di quel lavoro meriterebbe il moderno appellativo di “emozionale”, cioè la capacità di restare vicini alle persone nei momenti di maggiore impatto emotivo o di grave disagio: proprio, mi si conceda il paragone, come insegna la parabola del “buon Samaritano”; così, accenno solo a quando mia madre, durante la distruzione di Capracotta nel 1943, riuscì a farsi garantire da un ringhioso ufficiale tedesco che avrebbe potuto assistere la cara signora Annina Angelaccio, in avanzato travaglio di parto, nella nostra casa semidistrutta: divenuta poi un piccolo ospedale da campo.
Concludo infine il mio racconto ricordando che la mamma, informata che sua nipote, mia figlia Daniela, aveva scelto la professione di medico pediatra, le regalò come ricordo personale il suo vecchio stetoscopio; le disse infatti: “mi conforta il pensiero che, idealmente, ti aiuti ad ascoltare il battito cardiaco di tanti piccoli come, in fondo, ho fatto io ancor prima che nascessero”.
Aldo Trotta