La calcara

Ho sempre ricordato che mia madre Cesarina, originaria di Ferrara, aveva manifestato grande ammirazione per i cittadini di Capracotta dopo la sua, quasi completa distruzione a causa della seconda guerra mondiale; scriveva infatti che:

“grazie all’alacre operosità dei suoi cittadini e in tempi sorprendentemente brevi il paese, ridotto ad un cumulo di macerie, era tornato ad essere più bello e ridente di prima”.

Sono convinto che in questa frase fosse contenuto, per così dire, un messaggio subliminale di elogio per il marito, il mio papà Ottaviano che aveva sposato nel 1940 e che, seguendo la tradizione del nonno Carmine, faceva il muratore; in quel difficile periodo infatti, si era prodigato con il suo lavoro, sfidando la grave congiuntura economica e la scarsità estrema di mezzi di ogni genere: ad esempio riparando in fretta con l’aiuto dei fratelli la nostra casa di cui, fortunatamente, era crollato solo l’angolo sinistro e una parte del tetto.

Ho ripensato a quegli anni remoti osservando il cantiere edile in cui si sta procedendo a ristrutturare l’edificio in cui adesso abitiamo e altri circostanti; mi ha sorpreso, infatti, la complessità degli adempimenti preliminari e, in particolare, delle moderne impalcature che formano una vera e propria rete di camminamenti: la cui finalità è anche quella di prevenire gli infortuni.

Si può immaginare, al contrario, quanto fosse tutto diverso e più rudimentale a Capracotta, specie per la ricostruzione ex-novo di un edificio ridotto in macerie, sebbene si potesse contare sulla disponibilità di ottimo legname e, soprattutto, sulla buona volontà di tanti; io percepivo benissimo, tra l’altro, la preoccupazione della mamma per l’incolumità di papà, specie dopo che si era diffusa la notizia di alcuni, anche gravi incidenti, nella nostra zona: temeva infatti, per certi versi a ragione, che non fosse molto prudente.

In questi ultimi mesi, mi hanno parimenti  incuriosito gli avveniristici montacarichi elettrici: ben diversi dalle cigolanti carrucole di un tempo;  ci sono, poi, tantissimi nuovi materiali per l’edilizia ed è così che il mio pensiero e il mio ricordo sono andati alla cosiddetta “calcara”, di cui certamente i giovani e i ragazzi di oggi ignorano persino l’esistenza.

Da bambino sentivo ripetere spesso questo strano nome da papà, ma non comprendevo cosa fosse: fino al giorno in cui, durante una passeggiata alla “fonte Brecciaia”, notai degli operai intorno a una strana buca del terreno in cui del materiale a tipo di “magma grigiastro” sembrava proprio in ebollizione con grande effluvio di vapore: proprio come  in una grossa pentola fumante.

Si trattava della fase in cui si realizzava il lento raffreddamento della calce viva mediante l’impiego di acqua: una calcara, del resto, era  presente in molti paesi e, a Capracotta, si trovava poco fuori dall’abitato, nei pressi di “Colle Liscio”,  naturalmente molto vicina alla sede stradale per  facilitare il trasporto delle pietre.

Ho voluto, perciò, aggiornare le mie conoscenze sulla calce, antichissimo materiale da costruzione e mi sono imbattuto in un “Forum” italiano nel quale si legge testualmente”:

“Vi è del magico nel raccogliere un sasso dalla terra, cuocerlo e demolirlo al fuoco, renderlo plastico con l’acqua, lavorarlo secondo volontà e riottenerlo solido grazie all’influsso dell’aria; così è descritto quello che oggi chiamiamo Ciclo della Calce, un processo che, dopo una serie di passaggi, porta la pietra calcarea a diventare il legante principale di gran parte delle opere costruttive realizzate dall’uomo negli ultimi diecimila anni”.

Sarebbe perciò impossibile ripercorrerne la storia; è sufficiente ricordare un murale rinvenuto a Tebe, del 1950 a.C., che mostrava un primo esempio di malta a base di calce e poi i Romani per la costruzione, ad esempio, dell’acquedotto Claudio e della via Appia nel 300 a.C.; essi, infatti, sono stati i primi a utilizzare sia la cosiddetta “calce aerea”, capace cioè di fare presa a contatto con l’aria,  sia quella “idraulica”: in grado di solidificare anche in acqua. A tale scopo veniva utilizzata  una malta ottenuta mescolando la calce alla “pozzolana” (pulvis puteolana”), una sabbia pregiata, così chiamata perché, in origine, prelevata dai depositi vulcanici di Pozzuoli.

Il ciclo della calce iniziava dalla raccolta di ottime pietre calcaree (CaCO3 o Carbonato di calcio), molto abbondanti a Capracotta, cui seguiva la loro cottura che, liberando anidride carbonica, conduceva alla “calce viva” (CaO o Ossido di calcio): dal cui spegnimento ottenuto con acqua, si otteneva la cosiddetta “calce spenta” – Ca(CH)2, o Idrossido di calcio, il vero materiale da costruzione che, esposto all’aria, ritornava ad essere calcare (CaCo3) legando stabilmente tra loro le pietre o i mattoni dei muri; si trattava quindi di una serie di reazioni chimiche di cui dubito si conoscessero le formule a Capracotta tanti anni fa: senza nulla togliere alla maestria e all’esperienza di coloro che la producevano: tanto meno alla qualità ottimale della calce stessa dovuta alla purezza delle rocce e che, mi risulta, fosse molto apprezzata.

   La calcara era in genere una struttura simile ad un pozzo parzialmente immerso nel terreno, con apice rastremato piuttosto che “a tetto” e dotata di una camera di combustione; al di sopra di quest’ultima c’era la catasta dei sassi da cuocere e in basso una porticina per l’ingresso di aria, ma era necessario sorvegliare e alimentare continuamente  il fuoco, anche per circa 8 giorni: motivo per cui questo lavoro rassomigliava un po’ a quello, assai più noto, dei carbonai con la classica “catozza”.

Schema generico di una “calcara”

Era indispensabile, infatti, che si raggiungessero temperature elevatissime, fino a 800-900 gradi, senza che la brace venisse direttamente a contatto con le pietre calcaree: ed è questa la ragione per cui venivano impiegati, come combustibile, anche rami di piante resinose, ad esempio i pini e diverse altre le cui fascine erano spesso le donne a provvedere.

Di questa complessa procedura, la fase più pericolosa era certamente rappresentata dallo spegnimento della “calce viva”, durante la quale si correva il rischio di ustioni anche gravi: come avvenne purtroppo a papà per uno schizzo che lo raggiunse in un occhio e gli provocò una cicatrice corneale con parziale riduzione della capacità visiva.

Se non vado errato, da ogni ciclo di cottura si potevano ricavare circa 400 Kg. di calce che non sono molti considerando l’immenso lavoro e la grande quantità di combustibile necessari; e spaventa davvero pensare che allora ci fossero così pochi mezzi in  assoluto, specie degli escavatori o delle ruspe: tutto era ancora affidato a picconi e badili.

 Quest’ultima annotazione mi riporta, inevitabilmente, ad a uno dei lavori affidati dal Genio Civile a papà in quei lontani anni post-bellici: non quello di un edificio da riparare o da costruire, bensì lo sgombero delle macerie dalla zona che oggi, a Capracotta, prende il nome di “Largo dei Sartori”; in quello spazio, infatti, ora destinato a parcheggio per auto, sorgevano diversi edifici totalmente distrutti e dei quali, secondo il piano regolatore del dopoguerra, non era prevista la ricostruzione in quella sede.

Papà poteva già avvalersi di un autista con il suo camion ribaltabile, ma è possibile immaginare quanto tempo e quanta fatica occorresse per caricare a mano quel mezzo che trasportava le macerie in una discarica non lontana dal paese; anch’io, già più grandicello, mi divertivo spesso ad osservare quelle attività con l’andirivieni del camion, e notavo che diversi dei passanti si fermavano altrettanto a lungo.

Credevo fosse solo per curiosità giacché, ogni tanto, da quelle macerie affioravano le più diverse seppellitili: ad esempio un ferro da stiro, gli attrezzi per il caminetto, un piccolo caldaio di rame e persino una vecchia macchina da cucire arrugginita; assai più tardi ho appreso che diversi di loro non erano semplici curiosi, ma persone che avevano abitato in quelle case distrutte e quindi ancora molto provate dal punto di vista emotivo per aver perso i loro beni e per aver vissuto a lungo da… profughi.

Da parte mia, mi sono sempre augurato di non rivivere mai più un’esperienza analoga: è accaduto invece, con tanto dispiacere, nel 2009 dopo il grave terremoto dell’Aquila che pure, fortunatamente, non ha danneggiato me e la mia famiglia; ero invece sicurissimo che non sarebbe mai più stata la guerra a riproporre questo tristissimo genere di scenario prescindendo, s’intende, dalle dolorose perdite umane: mi sono, purtroppo, sbagliato e  siamo costretti a ripetere, sempre più angosciati:

“nulla di nuovo sotto il sole”

Aldo Trotta