Ze Culìtte al suo scrittoio in un disegno di Leo Paglione
Sono parole di una poesia del compianto falegname-artista” Nicola D’Andrea, per tutti “Ze Culìtte” (zio Colitto) che mi onoro di aver avuto come vicino di casa a Capracotta: una delle care persone, per intenderci, che…mi ha visto nascere e poi giocare da bambino e da ragazzo nella vivacissima “Via nova” (“Via Nicola Falconi”) in cui ho abitato fino all’età di 16 anni; e non ho bisogno di aggiungere altro specie considerando che in questo periodo, a cura dell’amico Vincenzino Di Nardo e dei carissimi nipoti di Nicola, Ermanno e Antonio, è stato presentato uno splendido libro che ne raccoglie le sue poesie: intitolato “Capracotta in versi”.
È parimenti superfluo sottolineare ancora una volta la grande emozione che mi pervade ogni qual volta mi riesce di far ritorno, come appunto lo scorso agosto, in paese: per cui provo tanta nostalgia che faccio tuttora fatica a considerare non come rivolta al mio “luogo del cuore, ma al felice periodo, purtroppo irripetibile, di quegli anni giovanili.
Per quanto appena detto, ero convinto di conoscere molto bene la storia personale e familiare di Ze Culìtte: mi sono invece dovuto ricredere restando quasi senza parole per quanto di nuovo ho scoperto a suo riguardo nell’occasione che citavo e soprattutto avendo tempo e modo di leggere, come ho fatto in questi giorni, le sue poesie; difficile davvero convincersi che non si trattava di una persona “erudita”, ma di un falegname autodidatta anche se molto geniale.
Col senno di poi, posso forse dire che, sia pure comprensibilmente per la mia giovanissima età di allora, ero stato in prevalenza attirato da altri suoi campi di interesse, piuttosto che da quello letterario; si può immaginare il fascino dei pionieri della fotografia com’era Ze Culìtte già tanti decenni or sono e in particolare di quell’alone di mistero che avvolgeva l’utilizzo della camera oscura per sviluppare i negativi; noi ragazzi (a cominciare dai suoi nipoti) sapevamo bene che era assolutamente proibito oltrepassare la soglia di quella piccola e buia stanzetta, pur non riuscendo a comprendere il motivo per cui la luce avrebbe potuto danneggiare le preziose pellicole che custodiva.
Ze Culìtte era maestro nell’utilizzo dei più disparati accorgimenti per ottimizzare la qualità dei fotogrammi ma attiravano ancor di più la nostra curiosità e la nostra attenzione le sue piccole-grandi invenzioni che spesso, come è stato ricordato, traduceva in oggetti pratici: ad esempio una serie di armadi e armadietti a compartimenti multipli, tipo scatole cinesi, che sembravano aprirsi e chiudersi magicamente, quasi richiedessero una segreta “password”.
Di una cosa in particolare, che parimenti ignoravo, sono rimasto impressionato e cioè che scrivesse in prevalenza di notte: per ragioni che in parte potrebbero essere state di tipo logistico o pratico, ma che io considero dettate dall’imprevedibilità della sua vena artistica; sta di fatto che si era costruito una “mensola-scrittoio fissata in capo al letto, provvista di una guida per la matita” consistente in una piccola griglia metallica a listelli paralleli. Essa conteneva dei fogli di carta sovrapposti, utilissimi per stare nel rigo con la matita e per la “brutta copia”, ma che comportava certamente una successiva trascrizione definitiva; senza contare, poi, l’enorme difficoltà di farlo con pochissima luce e magari nel rigore dell’inverno in un paese così freddo come era il nostro tanti anni fa.
Lo scritto di Ze Culìtte
Sarei tuttavia pronto a scommettere che Ze Culìtte, pur così attento e interessato alle novità tecnologiche, non si sarebbe lasciato tentare neppure da un moderno P.C.; ma, tornando ora al suo multiforme talento artistico, mi tornano in mente i versi di Dante Alighieri, poi divenuti il manifesto inaugurale del “Dolce Stil Novo”: (Purgatorio vv.52-54)
«I’ mi son un, che quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando»;
e potrebbe apparire eccessivo dedicarli a un semplicissimo poeta-falegname ma è senza dubbio innegabile che la sua fosse davvero e solo una questione di “ispirazione”: della quale andava sempre e dovunque colto “l’attimo fuggente”; come non ricordare, a tale proposito, che la sua figura di riferimento era Francesco Petrarca di cui conosceva a memoria tutto il “Canzoniere” (?).
Esula dalle mie intenzioni attuali, né potrebbe essere altrimenti, entrare nel merito della produzione letteraria dello zio Nicola; mi sentirei persino irriverente se tentassi di farlo, specie dopo aver ascoltato la splendida presentazione del caro amico sacerdote don Antonio Di Lorenzo: che consiglio a tutti di leggere e di meditare; quanto a me, sono lieto di essermi idealmente riavvicinato a questa straordinaria figura di poeta-falegname, mentre sono fiducioso di trovare anche nelle sue parole, come ho già sperimentato, un efficace rimedio contro la nostalgia. Mi sembra anzi di avvertirne già il beneficio, né potevo forse augurarmene uno migliore; perché, sia pure così tardi, mi vado accorgendo che la semplice lettura delle sue poesie mi concede di mitigare la mia “nostalgia deprimente”, trasformandola un po’ in “nostalgia creativa”; ne è prova il fatto che, prodigiosamente, ho quasi l’impressione di respirare di nuovo l’incredibile atmosfera della nostra via Nicola Falconi e non di rimpiangerla sterilmente.
Avviandomi ora alla conclusione, mi sorprendono i rintocchi delle campane che annunciano l’ora dei Vespri della sera: così, anche il loro suono mi riporta alle poesie di Nicola D’Andrea e, in particolare, a quella intitolata “A Maria Ss. Di Loreto” che termina così:
“…per portar con più forza la Croce
rassegnato, che il Ciel mi assegnò,
non lasciarmi. Io, finché avrò voce,
bella Vergine, a te chiamerò”;
e sono convinto che in questi versi sia racchiuso il testamento spirituale di un uomo davvero straordinario: lasciato in eredità a tutti i capracottesi.
Grazie di cuore caro “Ze Culìtte”, augurandomi che anche i giovani di oggi possano ispirarsi alla tua figura.
Aldo Trotta