Attingere l’acqua: un antico cimento per le donne di Capracotta

Come di consueto, nel periodo che accompagna la data dell’Otto marzo e cioè il giorno in cui si celebra la “Giornata Internazionale della donna”, sono molti i servizi e i convegni di cui danno notizia gli organi di informazione; essi, a mio giudizio, sono spesso abbastanza retorici nel loro contenuto o addirittura speciosi su alcuni temi come, per esempio, l’uguaglianza di genere ed altri di pur riconosciuta importanza.

Nella maggior parte dei casi gli argomenti più spinosi sono quelli di maggiore complessità e perciò tali da richiedere una specifica e approfondita conoscenza pluridisciplinare che io purtroppo non possiedo; facendo quindi una sola eccezione, accenno appena al doloroso, irrisolto problema della violenza ricorrendo alle illuminate parole di papa Francesco:

   “Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità…” ;

“…Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore…”.

Torno subito, perciò, al mio semplice desiderio di rendere omaggio alle figure femminili, in particolare alle donne vissute nel passato a Capracotta, di cui sono molto numerosi gli aspetti che potrebbero essere considerati; io mi limiterò a quello più imprevedibile per un luogo di montagna come il nostro: il loro faticoso impegno quotidiano di attingere l’acqua per tutte le esigenze, a cominciare dalla la pulizia e l’igiene personale.  In particolare ha attirato la mia attenzione una storica fotografia del Cavalier Giovanni Paglione intitolata “Via delle Grazie bloccata dalla Neve”, che porta l’incredibile data del 28 febbraio 1901; si distingue bene, sebbene non fosse ripresa in primo piano, una donna con la tradizionale conca di rame, una “tina” piena d’acqua appena prelevata dal fontanile della piazza;  ed è stato istintivo ripensare alla grande abilità necessaria per tenerla in equilibrio con la semplice interposizione di un panno arrotolato sulla testa chiamato “spara”: per di più percorrendo un viottolo ricavato nella neve con le modeste calzature invernali di cui si disponeva allora,.

Ma è dell’acqua appunto, non della neve, che oggi voglio parlare e del sacrificio incredibile che si richiedeva, ancora una volta alle donne, per poterne disporre a sufficienza in tutte le esigenze; è superfluo ricordare, infatti, che da non da molti decenni le abitazioni dispongono al loro interno di acqua corrente, sebbene il comune di Capracotta sia stato tra i primi, piccoli centri dell’Italia centro-meridionale a risolvere questo antico problema.

È certamente significativo, come raccontava il caro Domenico Di Nucci, che inizialmente a Capracotta fossero state utilizzate condotte idrauliche costruite con tronchi d’albero scavati nel loro interno; sfido chiunque, poi, a descrivere lo sgomento di quando anche ora, magari per brevissimo tempo, viene interrotta l’erogazione dell’acqua e diventa angoscioso pensare a milioni di persone che tuttora, nel mondo, non hanno accesso diretto a questo prezioso elemento.

Fa poi rabbrividire la storia di periodi particolarmente drammatici, per ad esempio quello della  pandemia di peste a metà nel 1300 ed è superfluo sottolineare l’importanza vitale dell’acqua per l’igiene personale o il lavaggio della biancheria come ricordavo in un racconto sulle lavandaie; considero comunque paradossale che a Capracotta l’approvvigionamento idrico abbia rappresentato una così grande difficoltà e, a tale riguardo, sono preziose le ricerche di Filippo Di Tella di cui cito testualmente le parole:

 “…Capracotta può fregiarsi del titolo di ‘Comune fontanelloso‘ per l’elevata quantità di fonti, fontane, fontanili, sorgenti e piloni distribuiti sul suo territorio, un numero che sfiora la ragguardevole cifra di 100 unità, se si considerano anche i punti acqua che si affacciano sui nostri confini ma che appartengono a comuni limitrofi”.

Queste sorgenti però, come è stato giustamente sottolineato, nel passato venivano utilizzate in modo prevalente per l’allevamento degli ovini e per la transumanza, ma certamente non altrettanto per le esigenze personali e domestiche; al punto che, da tempo immemorabile e con grande lungimiranza, a Capracotta era stato deciso il prelievo dell’acqua dal fiume Verrino: molto più in basso rispetto al paese e quindi con la necessità di un complesso sistema di sollevamento idraulico mediante pompe elettriche.

Queste ultime peraltro, oltre a risultare molto dispendiose, sono andate talora incontro ad avarie cui la laboriosità e l’inventiva dei capracottesi, per esempio del grande Marino D’Andrea, hanno puntualmente posto rimedio; con tutto ciò, io penso non si possa certo sostenere che nel nostro paese, sia pure a seconda dei tempi, siano stati trascurati l’igiene e la pulizia e il mio pensiero è corso ad alcuni tra i più noti riferimenti letterari di Capracotta, quelli di Edmondo De Amicis.

Essi, testualmente riportati tempo fa dall’amico Paolo Trotta, sono tratti dal romanzo “Sull’Oceano”, pubblicato nel 1889 per raccontare di un viaggio sul piroscafo “Nord America” da Genova all’Uruguay; ne cito, a mo’ di esempio, solo alcuni:    

«…fra queste spiccava una bella donnettauna contadina di Capracotta – con un visetto regolare e dolce da madonna, lavata male...»;

«Lì sotto la faccetta rotonda della contadina di Capracotta…».

Riflettendo ora a queste frasi, mi è sembrato di rilevare una contraddizione tra le garbate parole di compiacimento per la giovanissima contadina capracottese e l’apparente offesa contenuta nell’espressione “lavata male”; di quest’ultima non ero mai riuscito a interpretare il vero significato, se cioè fossero riferite all’aspetto reale del viso in quella “donnetta” oppure al fatto che apparisse trasandata e sporca nel vestiario. A mio giudizio, e certamente non per ingenuo campanilismo, è maggiormente plausibile la seconda ipotesi, specie considerando la durata di una traversata oceanica alla fine del 1800 e soprattutto le considerevoli difficoltà dovute all’affollamento in quegli antichi bastimenti: per di più viaggiando, com’è scontato che fosse, nella loro classe più economica.   

Avviandomi infine alla conclusione, non credo proprio di essere riuscito a elogiare come desideravo una delle meno appariscenti mansioni femminili del passato: quella di attingere l’acqua dai fontanili; mi piacerebbe, tuttavia, che la mia piccola voce si aggiungesse a quelle, assai più forti, che plaudono a ben altri e incredibili sacrifici delle nostre antenate; mi consola rendermi conto che non è facile trovare parole in grado di esprimerlo compiutamente e perciò mi auguro che la mia e la nostra riconoscenza continui ad essere simbolicamente rappresentata dallo sguardo della donna, forse una giovane contadina come quella descritta da Edmondo De Amicis, che troviamo raffigurata nel monumento all’emigrante, alle porte di Capracotta.

Aldo Trotta