Comincia con queste parole il commento che, qualche giorno fa, l’amico Francesco Di Rienzo ha dedicato a una bellissima fotografia di Carmine Ciolfi (foto in alto, ndr); era stata scattata per immortalare uno degli angoli di Capracotta, ora ricoperto di neve, che tuttora ricordano la spaventosa distruzione del paese durante l’ultima guerra mondiale, nel 1943. È in questo angolo che:
“qualcuno ha deciso di ridare vita a ciò che era stato spezzato, appendendo portavasi e una piccola casetta per gli uccellini, come un gesto di speranza e bellezza; e sabato la neve è scesa lieve, poi sempre più fitta, fino a coprire tutto con il suo manto candido. I portavasi, invece dei fiori, ora portano neve, morbide corolle bianche che sembrano sbocciare nel silenzio. La piccola casetta si è trasformata in un rifugio ovattato, come se il gelo volesse proteggerla anziché sfidarla”
Sono bastate queste parole a rammentarmi di altri, ormai pochi scorci che tuttora ci ricordano la guerra di oltre 80 anni fa: e non c’è dubbio che la neve li renda ancor più suggestivi; non mi vergogno, poi di confidare che, essendo nato in quel tragico periodo, ogni volta che mi è possibile cerco di rivisitarli come in un singolare, forse anacronistico pellegrinaggio. Tanto e solo per esempio, un altro di questi angoli si trova quasi al termine di via Roma, sulla destra, salendo verso la piazza Stanislao Falconi; un secondo è su via Nicola Falconi quasi di fronte al bar Monaco e un altro, fino a qualche tempo fa, nella sede su cui ora è stato costruito il mausoleo per il vecchio spartineve Clipper.
In alcune occasioni mi sono anzi affrettato a spiegare a chi mi osservava le ragioni di quelle mie strane soste perché credevo che solo le persone in età molto avanzata come la mia conoscessero il significato storico di quegli angoli; mi pareva perciò doveroso giustificare la mia commozione di fronte a
“un muro di pietra sopravvissuto alla guerra,
testimone silenzioso di giorni lontani”.
Mi sono reso conto invece, con grande consolazione, che anche i più giovani provano la stessa commozione e ne ho avuto prova, in modo particolare, nelle diverse ricorrenze celebrative in cui stati rievocati quei tremendi mesi del 1943; di una cosa sono certo per quanto mi riguarda e cioè che ogni volta sono i semplici versi di Nicola D’Andrea, il falegname poeta già mio vicino di casa, a farmi meditare su quel terribile conflitto:
“…Del ferocissimo
nemico in rotta
il primo martire
fu Capracotta…
Furiosa fiamma
ovunque ardeva…
tutto era strazio,
tutto piangeva!”.
Ma non è della guerra che voglio parlare, bensì della conclusione che chiude il commento cui mi sono ispirato:
“In questo silenzio immacolato, sembra quasi di sentire un respiro, quello della memoria che si mescola al presente, tra il passato che resiste e il futuro che forse, un giorno, tornerà a fiorire.”
Sembra impossibile, infatti, che pensieri di così grande speranza non provengano da un anziano come me, ma da persone assai più giovani: che magari non sono neppure nate a Capracotta, non hanno vissuto le difficoltà del dopoguerra e soprattutto non hanno sperimentato la dolorosa esperienza dell’emigrazione; a tale riguardo, appare davvero strabiliante che affiorino sentimenti di così grande amore per il nostro paese nelle nuove generazioni, che pure vengono spesso considerate irriverenti nei confronti del passato: fino al punto di farmi credere che ci sia una trasmissione genetica a motivale l’attaccamento per le proprie radici. Mi auguro anzi che quest’ultimo, lungi dall’affievolirsi gradualmente come molti temono, si rafforzi decisamente nei prossimi decenni: e soprattutto che si faccia di nuovo strada nel mondo una rinnovata, vera cultura di pace.
Intanto, nell’incantevole suggestione di quell’angolo di Capracotta, mi torna in mente una vecchia poesia, quasi una filastrocca infantile scritta da Umberto Saba e intitolata “Fior di neve”:
“Dal cielo tutti gli Angeli
videro i campi brulli,
senza fronde né fiori
e lessero nel cuore dei fanciulli
che amano le cose bianche.
Scossero le ali stanche di volare
e allora discese, lieve lieve,
la fiorita neve”.
Mi sembra l’elogio migliore che io potessi fare al commento del caro Francesco.