Una capanna di pietra a secco: l’antico “pagliarɘ” di Capracotta

Come ho spesso confidato, negli ultimi anni mi sono interessato dei più disparati argomenti certamente favorito, nella mia fascia di età, dalla grande disponibilità di tempo; e, di recente, ha attirato la mia attenzione un pregevole documentario televisivo dedicato alla costruzione dei muri a secco nell’area protetta del Parco Nazionale delle Cinque Terre, in Liguria.

Si tratta, come è noto, di un particolare tipo di muro costruito con blocchi di pietra opportunamente disposti e assemblati, senza impiegare leganti o  malte di alcun genere e che pertanto ha bisogno di tecniche speciali e di molta esperienza per essere realizzato: talmente particolari che nel 2018 il muro a secco è stato inserito dall’Unesco nel patrimonio dell’umanità  e leggevo, per di più, che un parco delle Dolomiti ha destinato enormi finanziamenti al recupero di questo patrimonio storico e culturale.

Per singolare coincidenza poi, proprio in questi giorni e nell’ambito delle attività programmate a Capracotta nel “Giardino della Flora Appenninica”, è comparso l’avviso di un corso dedicato all’apprendimento di quest’ antica modalità di costruzione; per me non è stata invece una sorpresa apprendere che il relativo progetto è stato affidato all’amico Lucio Carnevale cui si devono diverse altre, lodevoli iniziative: per  esempio la ricostruzione, con la tecnica citata, di alcune capanne in pietra che una volta erano numerose  nella nostra campagna e che prendevano il nome di “casotti” o, più comunemente, “pagliarɘ”.

A queste ultime era pure dedicato un articolo recente a firma di Paola Giaccio, intitolato “Le capanne di pietra a secco”, ma è doveroso sottolineare che questa tradizione non era certo esclusiva della nostra regione, tanto meno di Capracotta.

Limitandomi perciò all’Abruzzo, di cui il Molise ha fatto parte fino al 1963, mi ha fatto piacere ricordare che:

“Alle pendici della Maiella, il largo declivio che da Lettomanoppello risale verso le faggete di Passo Lanciano, ospita la più grande concentrazione di capanne di pietra. Sono casette a cupola che richiamano i prototipi mediterranei a tholos della civiltà greca e che somigliano ai nuraghi sardi e ai trulli pugliesi. Costruite con pietre a secco sovrapposte e rastremate in alto, le capanne hanno taglie diverse, dalle più piccole che sono destinate a magazzino, alle più grandi, in grado di ospitare persone”.

Superfluo aggiungere che:

“L’architettura rurale in pietra a secco nasce da uno stretto legame con le caratteristiche del suolo e dell’ambiente. Questo tipo di costruzioni, infatti, si rinvengono esclusivamente laddove è naturalmente presente la materia prima e cioè la pietra di natura calcarea”.

Tutto ciò spiega l’estrema diffusione, anche e soprattutto a Capracotta, di questa antica procedura edilizia che, pur così semplice, merita a pieno titolo l’appellativo di “architettura”; ne sono prova le parole di un recentissimo editoriale pubblicato dallo studio aquilano di ingegneria denominato ZED-Progetti:

   “Le pietre, raccolte nei dintorni, sono disposte in modo tale da creare una struttura stabile e autoportante. Non essendoci l’uso di malta, l’incastro delle pietre è fondamentale per la stabilità dell’edificio. La tecnica principale utilizzata è quella della “pietra a secco”, un’arte antica che si basa sull’equilibrio e sull’abilità nel posizionare ogni singola pietra in modo che contribuisca alla solidità complessiva della struttura. Nello specifico, ogni giro di pietra viene semplicemente poggiato su quello inferiore, spostato leggermente verso l’interno di qualche centimetro. In questo modo, a fine costruzione, solo un’ultima pietra poggia sulle altre a chiudere la pseudo-volta così realizzata. La struttura non implode perché ogni pietra risulta concatenata a spinta con le vicine”.

E’ altresì doveroso ribadire che a Capracotta queste primitive costruzioni erano destinate a semplice deposito per gli attrezzi da lavoro e soprattutto a rifugio provvisorio in caso di intemperie; anch’io ricordo benissimo alcune occasioni in cui  da bambino, essendo in campagna per la curiosità di assistere alle attività agricole, ho trovato rifugio dalla pioggia nella grande capanna di pietra a secco che sorgeva nei terreni della mia famiglia, in località Orto Ianiro. Sono in grado, perciò, di assicurare che quella capanna era davvero a prova del più violento temporale, mentre mi piace ricordare che era stata anche utilizzata da mio padre Ottaviano nei giorni della distruzione di Capracotta, durante l’ultima guerra mondiale; fu provvidenziale, infatti, quando io avevo solo pochi mesi, che vi potesse trovare riparo, insieme ad alcuni amici, dopo essere sfuggito al rastrellamento degli uomini da parte del comando militare tedesco.

Tutto ciò mi fa ora tornare in mente, con grande dispiacere, che quella nostra, storica capanna è purtroppo crollata come ho avuto modo di verificare alcuni anni or sono, nell’ultima occasione in cui ho potuto raggiungerla; e ricordo che mi rattristò moltissimo vederne diverse altre parimenti ridotte a un cumulo di macerie: restando soprattutto amareggiato di rendermi conto di quanto, già allora, fosse profondamente modificato il panorama generale della nostra campagna.

In passato, infatti, quasi in ogni appezzamento di terreno c’era una di queste capanne che, integrandosi benissimo nell’ambiente rupestre, tutto facevano pensare tranne che fossero state costruite dall’uomo; pareva davvero che il loro disegno si prolungasse armoniosamente, come in un ricamo, nell’estesa rete di muretti a secco e di terrazzamenti circostanti: tutti realizzati per ricavare terreno coltivabile da quelle impervie e pietrose zone di montagna.

Così non posso che esprimere il mio più sincero compiacimento per l’ambizioso progetto di recuperare, cominciando dai vialetti del “Giardino botanico”, l’intero sistema di muretti a secco di Capracotta”; è innegabile tuttavia che al tempo stesso e ancora una volta questo genere di riflessioni e di ricordi  risvegli in me tanta nostalgia.

Ripensavo, infatti, alla tradizionale attività di lavoro della mia famiglia, composta tutta di muratori fino alla mia generazione; così, se solo fossi un po’ più giovane e magari scoprendo una certa attitudine genetica per la costruzioni di muri a secco, non esiterei a chiedere di essere ammesso al corso diretto da Lucio Carnevale: che ne sono certo, insieme a tutto il suo gruppo, sarebbe molto felice di aiutarmi a ricostruire l’antico “pagliarɘ” dell’Orto Ianiro”. 

Aldo Trotta