I reduci della Grande Guerra

Seicentosessantatre tra soldati semplici e sottufficiali, ventisette ufficiali, sessantacinque morti, quaranta tra mutilati e invalidi, quarantasette feriti e undici decorati. Sono i numeri del contributo di uomini e sangue offerto alla Patria dalla comunità capracottese nella Prima Guerra Mondiale per strappare Trieste e Trento all’Impero Austro-ungarico.

I combattenti capracottesi, nei tre anni del conflitto, vengono schierati in tutti i punti caldi della linea di combattimento: nella battaglia degli Altipiani, sulle Dolomiti, sull’Isonzo, sul Lagorai, sul Carso e sull’Ortigara sia in azioni offensive sia di contenimento. I nostri concittadini muoiono per le pallottole dell’artiglieria nemica, dilaniati dai micidiali proiettili shrapnel, per le ferite riportare sul campo di battaglia oppure per il freddo. Ma si moriva anche per un semplice attacco di appendicite degenerato in peritonite. Le fortificazioni italiane si trovavano isolate sulle vette delle montagne alpine. E non era sempre facile trasportare in tempi utili i bisognosi nel più vicino ospedale militare per un intervento chirurgico d’urgenza.
Il primo soldato capracottese a perdere la vita nella Grande Guerra si chiama Giuseppe Di Tella. Il militare del 35° Reggimento “Artiglierie” cade l’11 giugno del 1915 nel Comune di Staranzano (Go) per le ferite «d’arma da fuoco». L’ultimo: Pasquale Di Nucci per malattia l’11 dicembre del 1918, a guerra oramai terminata. Tra i defunti, c’è anche il figlio di Luigi Campanelli, avvocato, ex sindaco e storico di Capracotta, il sergente Michelino Campanelli, 24 anni, colpito a morte a Begliano il 3 luglio del 1915 da una granata nemica mentre ispezionava i tiri di una postazione d’artiglieria. La comunità capracottese, però, fornisce all’esercito regio anche personale medico. È il dottor Mario Conti, per esempio, a salvare da morte sicura per pleurite il tenente degli “Arditi” Francesco Paglione, figlio del cav. Giovanni Paglione, al quale qualche anno fa è stata intitolata una targa in piazza Stanislao Falconi per i suoi meriti in campo medico.
Nel 1929, il grande scrittore Ernest Hemingway, volontario della Croce Rossa sul fronte italiano, nel suo romanzo “Addio alle Armi” parla di un cappellano di Capracotta e, tra le varie cose, ci lascia una descrizione fantasiosa della nostra cittadina. «A Capracotta, mi aveva detto (il cappellano, ndr), c’erano trote nel torrente sotto la città- scrive l’autore americano-. Era proibito suonare il flauto la notte. Quando i giovanotti facevano le serenate soltanto il flauto era proibito. Perché, avevo chiesto. Perché alle ragazze non faceva bene udire il flauto di notte. I contadini chiamano tutti “Don” e quando incontrano qualcuno si tolgono il cappello. Suo padre andava a caccia ogni giorno e si fermava a mangiare nelle case dei contadini. Per loro era sempre un onore. C’erano gli orsi sul Gran Sasso d’Italia ma era lontano. D’estate la notte faceva fresco e la primavera degli Abruzzi era la più bella d’Italia. Ma quel che era bello era l’autunno per andare a caccia nei boschi di castagni. Gli uccelli erano tutti buoni perché si nutrivano d’uva e non c’era mai bisogno di preparare una colazione perché i contadini erano sempre onorati e si mangiava in casa loro».

Francesco Di Rienzo

Fonte: AA.VV., Capracotta 1888-1937: cinquant’anni di storia cittadina nelle foto del Cav. Giovanni Paglione, Amici di Capracotta, ip. Cicchetti, Isernia, 2014