Storie della transumanza: un affronto sulla pubblica via

Un documento del Tribunale ecclesiastico di prima istanza nella Diocesi nullius di Canosa riporta alla luce un processo che ebbe luogo tra il 12 aprile e il 16 maggio 1750 nella città pugliese e che sottolinea l’irascibilità di tutte le persone coinvolte in una stupida lite sulla pubblica via. L’oggetto del contendere è una donna, sorella d’un novizio. Tutto comincia allorquando a un calzolaio capracottese, tal Pietro Di Cristo, viene intimato, senza tanti complimenti, di non posare lo sguardo sulla donna; immediatamente si passa dalle parolacce alle mani, in una rissa collettiva che provoca pure un contuso. Le persone coinvolte sono dunque sia laici che chierici e la vicenda, proprio per questo, finisce in tribunale. Fu così che di fronte alla curia canosina comparve in giudizio il frate Nicolò Mosca, intento a far causa al nostro calzolaio (soprannominato “il tignoso”), coinvolto in questa banale disfida per via della sua indole non proprio pacifica. Il I° foglio, firmato dal cancelliere Giovanni di Minervino e dal preposto di Canosa Carlo Rosati (1706-1753) – in seguito vescovo di Alife –, contiene la seguente istanza di comparizione:

«Nella Prevostal Curia di questa città di Canosa comparisce il clerico Nicolò Mosca della medesima, e dice come quest’oggi giorno di Domenica dodici del caminante Aprile, verso le ore dieci otto, stando il comparente fuori la porta di questa città avanti la botteca di Domenico Amicarelli, assieme col clerico Nicolò Grossi, e li novitij Bartolomeo di Salvio, Michele Bucci, e Donato Petroni suoi consocij; poco distante vi stava Pietro di Cristo della terra di Capracotta, che dimora in questa predetta città coll’arte di calzolaio; di là à poco è passato da quel luogo Savina Petroni sorella di detto novizio Donato, alla quale avendo guardato detto Pietro; detto novizio de Salvio scherzando gli à detto che avesse bassato gli occhi, e che non avesse guardato in faccia à quella, dandoli perciò anche per modo di scherzo colla mano sopra del collo; al che detto Pietro senza dir altro à posto la mano destra alla sua sacca in atto di voler prendere qualche arma; visto perciò da detto Bucci si è accostato a detto Pietro, e li à detto li formali parole “coglione tu metti la mano alla sacca” detto Pietro sanza dir altro, li ha dato due pugni in testa, il che vistosi dal comparente, volendo difendere l’abito clericale, si è fatto avanti e li à detto che non se l’avesse preso con quello, per ciò detto Pietro li hà tirato un pugno, che non li hà colpito, perché il comparente si ave attirato, e frattanto hà dato a quello due pugni; in questo, mentre è sopraggiunto Francisco di mastro Onorio, anche calzolaio compagno e compatriota di detto Pietro, il quale ave da dietro afferrato detto comparente, ed in questo mentre detto Pietro di Cristo gli hà dato molti pugni nella faccia, cagionandoli molte contusioni vistosi da detto clerico Grossi, che il comparente veniva malamente offeso da detto Pietro, è corso in aggiuto del medessimo comparente, ed ave impedito detto Pietro a continuare li pugni, che se non era per tale aggiuto, restava maggiormente offeso. E perché il fatto così pubblico, ed ingurioso non deve restare impunito perciò il comparente in detta Prevostal Curia, e ricorrendo all’armi chiesastiche fa istanza del tutto accaparsene diligente informazione e costato dichiararsi dai Pietro di Cristo, Francisco di mastro Onorio incorsi nella censura contenuta nel Canono “Si quis suadentes” anche con rilasciarseli i Ceduloni; e così dice e fà istanza non solo in questo ma in ogni altro miglior modo».

Leggendo l’atto di citazione si evince che il capracottese Pietro Di Cristo, venuto alle mani col chierico Nicolò Mosca per aver ammiccato alla sorella d’un confratello, sia stato poi aiutato da un altro capracottese, tal Francesco D’Onofrio, a picchiare selvaggiamente il religioso. In tutto questo baccano trovo sorprendente l’uso della parola coglione, a maggior ragione se pronunciata da un religioso. Nel II° e III° foglio dell’atto abbiamo il formulario con cui, il giorno seguente, furono raccolte le deposizioni di tre canosini convenuti sul luogo a rissa terminata. Ecco le deposizioni testimoniali rese sotto giuramento dallo sfossatore quarantacinquenne Antonio Matarrese e dai contadini quarantenni Savino Siniso e Francesco De Salvio:

A.M.: «Ill.mo Signore, Domenica dodeci del corrente mese Aprile, mentre io era alla piazza per uscire alla porta della città verso le ore dieci otto in circa sentii fuori della medesima stridi, e liti, dove accorrendo trovai attaccato, Pietro di Cristo Abruzzese alia il tignoso col chierico Nicolò Mosca, come pure viddi un altro Abruzzese vestito di gilarberga color rossaccio, che chiamano Francisco di mastro Onofrio, il quale dalla parte di dietro tenevo afferrato detto chierico, ne viddi batterli; dalle contusioni però, che ’l chierico ce aveva in una parte della faccia, sospettai, che potesse essere effetto di qualche pugno, come sentij dire, che avesse il chierico ricevuto dall’Abruzzese sudetto, e questo è quanto io posso deporre in mia coscienza».

S.S.: «Ill.mo Signore, jeri Domenica dodeci del corrente Aprile, circa le ore dieci otto mentre era alla piazza seduto con un mio figliolo alla mano sentendo fuori della porta della città gridi di gente, che fra di loro eranno affuffata, accorsi verso quella parte, e trovai, che un Abruzzese, che chiamano Pietro di Cristo alias il tignoso era attaccato col chierico Nicolò Mosca, il quale da un altro Abruzzese, che sento chiamare Francisco di mastro Onofrio era, afferrato detto chierico dalla parte di dietro, e come mi trovai in fine della rissa viddi che l’Abruzzese sudetto di Cristo tirò forse l’ultimo pugno al cennato chierico: onde accorsi io, ed altri chierici ivi presenti feci dividerli, e finì la rissa, osservai bensì una parte del volto di detto chierico arrossita, e questa è la verità, che in coscienza mi costa».

F.d.S.: «Ill.mo Signore, Domenica dodeci del caminante mese di Aprile, alle ore dieci otto in circa mentre era vicino alla porta di questa città, sentendo, che fuori della medesima potesse esserci gente arrissata di tutta fretta vi accorsi e trovai attaccati insieme un Abruzzese chiamato Pietro di Cristo, alias il tignoso, e il chierico Nicolò Mosca, il quale con pugni era battiato dal sudetto abruzzese; come viddi, che mentre questo lo batteva, altro Abruzsese che chiamano Francisco di mastro Onofrio teneva detto chierico dalla parte di dietro afferrato, onde all’arrivo non men mio, che di Savino Siniso, e di Antonio Matarrese restarono questi frà di loro divisi, e questo è quanto io hò veduto e so de causa scientie».

Abbiamo visto che le tre deposizioni si basano perlopiù su illazioni, poiché i tre testimoni accorsero sul luogo del crimine dopo che il chierico era stato picchiato. Difatti, al termine del III° foglio v’è il mandato prevostale inviato il 24 aprile 1750 agli ufficiali della Curia, poiché, siccome il Mosca aveva invocato l’antichissimo privilegium canonis del “Si quis suadente diabolo” – la particolare prerogativa, contenuta nel canone 199, per cui si comminava la scomunica al laico che compiva un’ingiuria reale (una percossa nei confronti dei chierici) –, gli alti papaveri della Chiesa locale, con equità e lungimiranza, ritennero opportuno un supplemento d’indagine. A tal fine il preposto Rosati e l’assessore Francesco Colucci avevano ammonito i due calzolai – obbligandoli a presentarsi per tre giorni in Curia – e avevano preteso nuovi testimoni per il processo in corso, tanto che nel IV° foglio v’è la convocazione, tramite il cursore Simone Marcovecchio (l’ufficiale che notificava gli atti giudiziari), per Pietro Pettinicchio e Marco De Lolli, cittadini agnonesi, invitati urgentemente a rendere le proprie deposizioni e che, come vedremo, ribalteranno totalmente il corso degli eventi, poiché sembra che siano stati loro, e non i capracottesi, a difendersi manescamente dalle angherie di padre Nicolò:

«Nella Curia Prevostale di Canosa compariscono Pietro Pettinicchio, e Marco de Lolli della città di Agnone commoranti in Canosa, e dicono, come questa mattina mercoledì 29 del cadente mese di Aprile sono stati citati li comparenti dal Cursore di detta Prepostale ad dicendam causam quare non debeant declarari, per la causa della lite fra detti comparenti, ed il chierico Michele Ferrante nel principio di questo passato mese di Aprile, non ricordandosi il giorno prefisso, che se ne stavano essi tutti comparenti nella loro bottega fuori la porta della città quietamente giorno di festa, in quel mentre passò la figlia di Michele, dico di Riccardo Petrone col suo marito; esso Pietro riguardò come huomo la detta giovane, senza parola alcuna, o mal’atto; vi erano in detta bottega Michele Buccio, il chierico Nicolò Ferrante, e Bartolomeo di Salvio, et altri clericotti. Il sudetto Michele Bucci disse ad esso Pietro “bassa gli occhi” questo se ne fece una risa, e detto Bucci li diede uno scoppolone, et esso Pietro vedendosi così aggravato, ne li tirò un altro a prevenzione. A ciò accorse il sudetto chierico Nicolò Ferrante, e cominciò a maltrattare esso Pietro con angrivi, e con a lui aggravij di parole; e vedendo esso muscolari maltrattò il compagno, accorse per dividerli; e detto chierico Nicolò Ferrante non contento delli aggravij fatti ad esso Pietro, tirò un pungo sotto l’occhio sinistro di detto huomo il quale vedendosi così offeso senza causa, a primo impeto, senza badare a chi diede un altro pugno a don Nicolò Ferrante a difesa della propria persona, e essi per non restare maggiormente aggravati dagli altri chierici, che ivi s’attrovarono tutti uniti contro i poveri comparenti che se ne stavano così quietamente avanti la bottega loro; pertanto rispondendo a detta litigagione, supplicano Monsignore Illustrissimo, che attenta la ragione loro, non li denega dichiarare, né compiacersi per sua singolare gratia assolvendi secretamente, et castigare abusi li detti chierici per le impertinenze usate verso i comparenti; e maltrattamenti fatteli di pugni, e di ingiurie, che li mosse, e di che dare a ciascuno a loro di difendersi, ma non con animo aggravare essi sudetti chierici, e così dicono, supplicando, e facendo istanza ma in altro miglior modo, protestantes de expertis, salvis vobis».

È possibile che il Pettinicchio e il Di Cristo fossero la medesima persona: i documenti in nostro possesso non chiariscono l’arcano né l’utilizzo degli antichi patronimici può esserci d’aiuto. Sta di fatto che il processo terminò in una bolla di sapone, col chierico Mosca (in ultimo chiamato Ferrante) che ritirò le sue accuse in cambio di scuse formali da parte dei calzolai capracottesi e/o dei pastori agnonesi. Questi ultimi, prima di tornare in patria, racchiusero in un libello di supplica le loro scuse unitamente a una richiesta di grazia, e il preposto Carlo Rosati non poté far altro che assolvere i querelati, mettendo la parola fine ad una vicenda tanto stupida quanto capziosa e confusionaria. Di certo, questa insulsa lite dimostra quale fosse la cortesia e l’ospitalità riservate ai transumanti e, più in generale, agli strati più bassi dell’immigrazione pugliese. Non notate anche voi qualche parallelo con la situazione odierna?

Francesco Mendozzi

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