Il Piccolo Principe

Da tredici anni mio fratello non c’è più. Eppure l’allenamento a non dimenticare non si è indebolito: averlo conosciuto mi ha dato gioia e forza per ricordare. Mia madre, Maria, ci ha insegnato a coltivare sempre le memorie della famiglia.
Si racconta che quando il bambino nacque − dopo la prima figlia della famiglia Monaco (‘La caccia’) −, al civico n. 59 del Corso, la via principale del paese, si respirò allegria e orgoglio come fosse nato un ‘piccolo principe’. I festeggiamenti all’unico figlio maschio furono scanditi dall’organetto suonato magistralmente da papà Tonitto. Non ci fu la presenza delle tre fatine…ma quella di pane e prosciutto, caciocavallo e formaggi vari. A Capracotta − paese dell’ Alto Molise a quasi 1500 metri sul livello del mare, circondato dalle Mainarde e dalla Maiella − si bevve però (e non poco) quel succo rosso, il vino, che − arrivato da luoghi più caldi − procurava buonumore a tutti.
Al bambino diedero il nome del nonno paterno, Gaetano, che assieme alla famiglia presa dalla nostalgia, era tornato al paese natìo dall’Argentina, dove tutti loro erano emigrati dopo la prima guerra mondiale. Non era il posto dove si facevano i soldi. Era l’America dei poveri, come diceva nonna Mariuccia, sua moglie. Ma lì, comunque, si erano sistemati bene: avevano tanta terra e bestiame. Soprattutto cavalli.
Gaetano era un bel bambino vivace dai capelli lisci e biondi biondi, con gli occhi verdi.
Non divenne mai un vero principe: quando compì 7 anni, la favola si interruppe: arrivò la guerra.
Mamma diceva spesso che le guerre le volevano quelli che comandano, non la povera gente: quanta verità, anche guardando ad oggi!
La guerra arrivò con il suo carico distruttivo di cose e di persone. Distrusse la nostra casa, uccise e disperse i cavalli di papà, unica nostra consistente fonte di sostentamento.
Così ebbe fine la fanciullezza spensierata della primogenita Marietta e del ‘piccolo principe’.
La guerra portò anche la morte nella nostra famiglia: Emilio aveva meno di due anni quando si ammalò e se ne andò durante lo sfollamento da Capracotta semidistrutta verso i campi di rifugiati in Puglia. Nicolina poco dopo, a 12 anni, non appena tornati al paese dal girone dellesclusione, come mamma definì quella orrenda permanenza nei campi di rifugiati, dove gli sfollati da altre regioni, privati di tutto a causa della guerra, venivano letteralmente sbeffeggiati ed emarginati dagli abitanti che si sentivano invasi ma, in fondo, erano anche loro vittime della guerra (solo un po’ meno miseri) che li chiamavano ladri e zingari per segnarli di ignominia. “Razzisti verso i propri fratelli”, diceva mamma, con gli occhi rossi e pieni di dolore e di rabbia. La storia, anche quando è vissuta, non sempre insegna: oggi riviviamo orrori simili quando si tratta di quei poveracci stipati su barconi e destinati spesso a morire annegati nelle acque scure del Mediterraneo: un cimitero − come dice quasi solitario papa Francesco − che una volta fu mare di pace e ponte fra diverse civiltà.
Al paese quelli che non erano stati sfollati ma avevano la casa minata e distrutta dai tedeschi (che si erano erroneamente convinti che a Capracotta ci fosse una base partigiana, e per questo avevano ucciso i fratelli Fiadino), si rifugiarono nella scuola, nelle chiese e nel cimitero. Ad essi si aggiunse, poi, la massa degli sfollati di ritorno dai campi dei rifugiati. Alcune famiglie furono costrette, nel più grande caos, a soggiornare in tali luoghi per parecchio tempo, in attesa che gli Enti di Stato costruissero le nuove case popolari. I miei, già molto provati e con tre vecchi che erano anche mentalmente un po confusi, chiesero a un muratore di ricostruire la nostra casa. Così mamma − ricorrendo a semplici ma accattivanti promesse di qualche piccolo premio perlopiù alimentare − convinse Marietta e Gaetano a far parte del ‘popolo della notte’. Non era un gioco. Si trattava invece di andare quatti quatti di notte alla ferrovia che distava dal paese 10 km in discesa, ma una infinità a risalire con il carico faticosamente prelevato di spezzoni di binari sulle spalle. Binari non più per viaggiare ma per fare da strutture portanti dei muri e delle volte delle case, spesso tirate su senza neanche poter provvedere a dotarle di solide fondamenta.
E poi, per i ragazzi c’era anche un supplemento di fatica, ma in paese. Andavano a prendere nelle case distrutte quante pietre riuscivano a caricarsi, compiendo uno sforzo esagerato per la loro ancora esile (e sempre affamata) corporatura.
Finalmente la casa ! Certo sembrava la casa − “senza soffitto…senza cucina…”− della canzone resa celebre da Sergio Endrigo. Ma “…era una casa molto carina…”, e un minimo di intimità l’aveva!
La famiglia purtroppo diventò più piccola, quando morirono i vecchi e restarono mamma, papà e i due ragazzi.
Tornata la libertà e la casa, mamma e papà − impoveriti dalla guerra, ma indomiti − poterono cominciare a cercarsi mille lavoretti per sbarcare decentemente il lunario. Ma non dimenticarono il loro amore, che fruttò la nascita di unaltra femminuccia, Emilia.
Intanto Gaetano cresceva. Sempre bello, biondo, con le labbra carnose ad incorniciare i denti ben allineati, si era fatto proprio un bel ragazzo alto e aitante. I miei, in virtù del fatto che era maschio, gli diedero la possibilità di continuare a studiare fino al liceo. Privatamente, visto che solo le scuole elementari erano obbligatorie e gratuite.
Aumentarono, così, i sacrifici per mamma, che stirava giornate intere da Don Giacinto, uomo colto e con idee comuniste come Tonitto e, quindi, diverso dal nipote che per anni perseguitò papà per motivi politici.
Ma torniamo a Gaetano.
Chiusa la parentesi scolastica, lui e i tanti giovani che popolavano il paese, cominciarono a partecipare ai concorsi per fare il poliziotto o il carabiniere o.. .
Lui risultava sempre idoneo agli scritti, ma non veniva mai chiamato per sostenere lorale . Il motivo nessuno lo spiegava ma tutti sapevano: figlio di Tonitto il comunista e pure lui di idee di sinistra…!
Così, mentre aspettava chiarimenti o risultati positivi, frequentava assieme agli amici lo storico ‘Sci club’ per quattro chiacchiere, giocare a carte e, in inverno, andare a sciare.
Io, intanto, ero nata. Non fui accolta come una principessa però. Lo diventai dopo perché ero la ‘piccola di casa’ !
Mamma, nonostante la vita difficile, si sforzava di alleviarci la vita. Soprattutto quella dell’unico figlio maschio, visto che Emilia ed io eravamo piccole e la primogenita Marietta era convolata a nozze. Gaetano ebbe così il permesso di ballare a casa nostra . A noi piccole fu affidata la sorveglianza: “la porta deve essere sempre aperta… i ballerini non si devono abbracciare troppo stretti… la luce deve restare sempre accesa, mi raccomando!”
Tutti i ragazzi che ci vedevano fare la guardia, cercavano di comprare il nostro silenzio offrendoci le caramelle ‘Rossana’ vinte a tressette! Noi eravamo felici perché sentivamo la musica, vedevamo ballare. Tutte cose che non ci capitavano tutti i giorni!
In quelle domeniche nascevano amori che continuavano con lettere e bigliettini durante la settimana. Sapevamo che Gaetano esercitava un grande fascino che non esibiva pur apparendo molto interessato alle sue ballerine. E veniva ricambiato! Le più ammirate erano le eleganti villeggianti che alloggiavano al bellissimo albergo ‘Vittoria’. Quasi tutte erano carine, portavano i tacchi alti, i vestiti corti e ‘a palloncino’ (proprio ‘anni 60′) e qualcuna si spingeva ad indossare un vestitino con una scollatura che per i tempi era assai osée. Ma l’occasione più ghiotta si presentò quando − durante una delle Feste capracottesi con tanto di orchestrina − simpatizzò con la bella cantante che ogni tanto gli lanciava sorridenti sguardi dall’alto del palco. Il suo ‘pezzo forte’ era : “Marina, Marina, Marina…ti voglio al più presto sposar”. La ragazza era molto carina e spigliata. E giocava a fare l’ammaliatrice.
Gaetano cascò nella rete. Ma pare che il gioco sia durato poco. Mamma e papà si dettero molto da fare per svegliarlo dal sogno: quella ragazza sembrava proprio troppo leggera!
Si dice che lui, allora, la salutò e si dice che non si videro più. Comunque risulta che certamente non si erano promessi nulla e, infatti, non nacque fra loro una vera storia.
Intanto la vita proseguiva ed ecco il primo amore. Si chiamava Annina. Balli la domenica a casa nostra, qualche bacio rubato e persino promesse per il futuro. Gaetano partì per Aprilia, dove lavorava un mio zio. Tanti dei pochi soldi che guadagnava li spendeva in francobolli per Annina.
Tornò a Capracotta per una festa importante, vide Annina e si precipitò, ma fu bloccato come una statua di sale quando la tanto sospirata Annina gli dovette confessare che fra loro era tutto finito perché si era innamorata di un altro: proprio Giacomo, l’amico del cuore di Gaetano! Ma per fortuna i giovani hanno un orizzonte di vita molto molto ampio che può far superare i dolori con più facilità. Gaetano e Giacomo, fra laltro, rimasero complici e amici per tutta la vita, entrambi senza Annina.
I giovani di quei tempi, specie nel Mezzogiorno, difficilmente trovavano lavoro e spesso erano costretti ad emigrare. Così fu anche a Capracotta. Ma, prima di andarsene per disperazione, negli anni Sessanta molti tentarono comunque di cambiare le cose almeno nel loro paese, avvertendo che il vento, prima o poi, avrebbe forse cambiato direzione, come avvenne alla fine degli anni Sessanta, e non solo in Italia.
Stanchi, dunque, di stare passivamente ad aspettare un lavoro che non arrivava, di pesare sulla famiglia, di dover chiedere ai soliti potentati, vollero tentare una piccola rivoluzione capracottese. Dettero vita, in vista delle elezioni comunali, ad un simbolo legato ai loro bei luoghi: la lista venne denominata ‘L’ Abete’ e ‘Vota Abete’ si rivelò l’appello vincente: il giovane avvocato Carmine Di Ianni fu il nuovo Sindaco, il primo Sindaco non espresso dai vecchi boss locali che avevano dominato nel dopoguerra. Ma sapevano che, ancora, non era arrivato, per tutti loro, il momento della svolta nel lavoro e nella vita. Molti dovettero dunque cercar fortuna altrove, ed emigrarono.
Gaetano, stavolta, riuscì non solo a vincere il concorso, ma anche a divenire finalmente Guardia Forestale, che per molti anni è stato un corpo autonomo e non militarizzato. Mio fratello, pacifista e progressista, ne era orgoglioso e questa dimensione gli calzava a pennello. La sua indole non violenta ben si coniugava con i compiti di difesa dell’ambiente. E rimase sempre fedele a questa ispirazione.
Ha girato e visto boschi e fiumi, ha combattuto contro i piromani e i cacciatori di frodo e, via via, gli furono affidati in giro per l’Italia, vari e sempre più impegnativi incarichi di direzione dei comandi locali. Poi, in un paese della Basilicata, durante una festa, vide una bella ragazza bruna, alta e soprattutto con occhi grandi del colore di un lago azzurro. E così si innamorò di Filomena, si adoperò con determinazione per superare le diffidenze della famiglia di lei nei confronti di un giovane di passaggio e in divisa e, finalmente, ne chiese e ottenne la mano. Dalla loro felice unione nacquero Antonello e Maria, due dei miei cari nipoti. Finalmente, dopo anni, Gaetano riuscì ad essere di nuovo il ‘principe’, amato non solo da tutti noi ma anche dalla sua bella, nuova famiglia.
Vissero a lungo felici, ma non tutte le belle favole finiscono bene come noi vorremmo.
Gaetano se ne andò prematuramente, lasciando tutti noi addolorati e frastornati.
Negli ultimi tempi era venuto più volte, con Filomena, a curarsi a Roma. Ricordo con commozione ma anche con un sorriso la sua soddisfazione quando potemmo fargli vedere in TV qualche partita del Napoli, in una casa di romanisti accaniti ma sinceramente rispettosi del suo tifo. L’ultimo giorno, in ospedale, lo raggiunsi e trovai i suoi in lacrime. Filomena mi disse con commozione una cosa che non dimenticherò mai: “Pina, vai a salutarlo… ti sta aspettando.”
Fu così che se ne andò.
Principe è stato e resterà per sempre nei nostri cuori.

Pina Monaco