Capracotta a 100 anni dalla Grande Guerra: “La Prima Guerra Mondiale” di Achille Conti

Pubblichiamo, una alla volta, gli interventi di tutti i relatori del convegno sulla Prima Grande Mondiale dal titolo “Capracotta a 100 anni dalla Grande Guerra”, svoltosi sabato 8 agosto 2015 presso la Sala Polifunzionale dell’Edificio Scolastico di Capracotta. Questo appuntamento è stato soltanto uno degli eventi di un ampio programma organizzato dall’amministrazione comunale di Capracotta, in collaborazione con la “Fondazione Molise Cultura” e le associazioni “Amici di Capracotta” e “Terra Vecchia”, per celebrare il centenario dello scoppio del primo conflitto mondiale.

La Prima guerra mondiale ha rappresentato uno snodo fondamentale nella storia contemporanea. Non è quindi un caso che il 1914 sia stato considerato dallo storico Eric Hobsbawm il punto di partenza di quello che ha definito “il secolo breve”. Lo storico inglese forniva una periodizzazione del Novecento che iniziava con l’uccisione dei Francesco Ferdinando a Sarajevo il 28 giugno del 1914 e si concludeva con la caduta del muro di Berlino nel 1989. Come tutte le periodizzazione anche quella proposta dalla storico inglese era soggettiva e in parte ricalcava anche la sua esperienza personale. Quello che però va sottolineato è che indubbiamente la Grande Guerra ha segnato un momento di svolta decisivo sotto diversi punti di vista della storia mondiale. Come primo punto bisogna sottolineare che le dinamiche geopolitiche, tipiche dell’epoca precedente, vennero completamente stravolte alla conclusione del conflitto. Imperi secolari come quello asburgico e quello ottomano crollarono, stessa sorte subita dall’impero tedesco e da quello zarista, caduto sotto i colpi della rivoluzione bolscevica del 1917. Infine nel 1918 gli USA si apprestarono a gettare le basi per diventare la principale potenza mondiale soppiantando la Gran Bretagna che deteneva da ormai diversi secoli una posizione di dominio sulla scena mondiale. Anche limitandosi all’ottica puramente bellica, mai prima di allora, da qui la definizione di Grande Guerra, era stato combattuto un conflitto di tali proporzioni capace di coinvolgere tutte le più grandi potenze dell’epoca, con l’impiego di milioni di uomini e con l’utilizzo di armi di nuova generazione, di notevole potenza distruttiva (mitragliatrici, cannoni, obici, bombarde) insieme a dispositivi bellici fino ad allora sconosciuti come i sommergibili, gli aerei e i gas tossici.

Anche per l’Italia la Prima guerra mondiale ha rappresentato un momento di svolta sia per gli effetti che il conflitto ebbe sulla società italiana, si pensi alla cosiddetta vittoria mutilata, decisivi per l’avvento del fascismo, sia perché, per la prima volta da quando era stata ottenuta l’Unità, milioni di italiani si ritrovarono a combattere sotto la stessa bandiera. Soffermandoci quindi su questo ultimo punto non si può negare come il conflitto sia stato nelle sue fasi più drammatiche un momento di coesione nazionale e di fusione di tradizioni regionalistiche che fino a quel momento erano rimaste separate. Basti pensare che vennero mobilitati 5.615.000 uomini, una cifra enorme per l’epoca se si tiene conto che la popolazione totale si attestava sui 36 milioni. I caduti furono 651.000 a cui vanno aggiunti un milione e mezzo tra feriti, invalidi e mutilati e le circa 325.000 vittime civili. A livello europeo l’Italia fu il sesto Paese per numero di vittime militari, preceduto dalle cinque nazioni che avevano dato il via al conflitto. In particola la  Germania con 1.808.500 vittime fu il Paese più colpito dal conflitto, seguito dalla Russia, con 1.700.000 vittime, dalla Francia, 1.385.000, dall’Austria, 1.200.000 e infine dalla Gran Bretagna con 947.000 morti.

Per l’Italia la prima guerra mondiale ha  indubbiamente rappresentato un momento di coesione nazionale, ma allo stesso tempo è stato  un momento traumatico vista la durezza della guerra in trincea, in un ambiente, quello alpino, che per la sua asprezza rendeva molto complicata la vita sul fronte. Basta leggere i diari, o le lettere di chi ha combattuto questa guerra per rendersi conto delle condizioni durissime in cui si combatteva. Sia che si tratti di scrittori affermati come Gadda, o Lussu, solo per fare dei nomi, sia che si tratti di semplici contadini del Meridione, quello che emerge con chiarezza sono le terribili privazioni che i soldati al fronte subirono. I soldati in trincea trascorrevano le proprie giornate immersi nel fango, in condizioni igieniche disastrose, con il cibo che scarseggiava.

È in questo senso che si comprende come una delle pratiche più diffuse del nostro esercito fosse l’autolesionismo. Attraverso tutta una serie di macabre pratiche che arrivavano fino al provocarsi delle mutilazione o ferite volontarie con le armi da fuoco, i soldati italiani puntavano a restare il più lontano possibile dal fronte ed erano pronti a provocarsi danni permanenti pur di fuggire da quella tragica realtà.

Alle durissime condizioni ambientali va poi aggiunta l’inadeguatezza dei vertici militari che affrontarono la guerra secondo concezioni ottocentesche ormai superate che prevedevano l’assalto frontale a massa contro armi tecnologicamente micidiali, con la conseguenza di mandare così a morire migliaia e migliaia di soldati per conquistare, dopo inauditi sforzi e perdite umane, poche centinaia di metri di territorio avversario.

Cadorna, il comandante italiano fino alla disfatta di Caporetto, era infatti un teorico dell’assalto frontale e non prese mai in considerazione una strategia più flessibile e meno dispendiosa dal punto di vista delle perdite umane. Dopo un intenso fuoco di artiglieria sulle postazioni nemiche, i fanti venivano lanciati all’assalto lungo un percorso disseminato di reticolati e ostacoli di ogni tipo e sottoposti al fuoco intenso delle mitragliatrici. In queste condizioni si comprende bene come bastassero pochi assalti per provocare la morte di migliaia di soldati. A questa impostazione strategica statica, poco flessibile e dispendiosa venne poi affiancata una rigida disciplina che prevedeva punizioni durissime, come la fucilazione, per le minime infrazioni oppure le famigerate decimazioni per ridurre alla totale obbedienza i soldati che si rifiutavano, a volte, di eseguire ordini che spesso reputavano incomprensibili. Dai documenti di archivio emerge chiaramente come da parte dei vertici militari italiani ci fosse una scarsissima considerazione dei propri soldati, come dimostrano appunto le fucilazioni e, in generale, una totale mancanza di sensibilità nei confronti delle sorti dei propri sottoposti. Emblematico in questo senso è quanto avvenne in seguito alla disfatta di Caporetto, quando Cadorna attribuì la colpa della sconfitta alla vigliaccheria dei soldati italiani e alla scarsa volontà di resistenza da parte di questi ultimi. In realtà si trattò di una sconfitta che fece emergere tutti i limiti dei vertici militari nazionali. Non solo non venne affatto compreso il piano offensivo degli avversari, ma quello che aggravò la sconfitta fu l’incapacità di gestire la ritirata delle truppe in prima linea: quella che poteva rimanere un sconfitta, seppure di notevoli dimensioni, si trasformò in un tracollo che per poco non causò la resa dell’Italia, proprio perché Cadorna non si rese assolutamente conto di ciò che stava accadendo, finendo per abbandonare il proprio esercito allo sbando. Non solo ma a Caporetto emersero ancora più che in altre occasioni le lacune organizzative e materiali dell’esercito italiano. Si pensi ad esempio all’attacco, nell’ambito dell’offensiva di Caporetto, lanciato da parte dei tedeschi nella zona di Plezzo, un punto considerato da Cadorna del tutto inadatto a un’offensiva. In questa azione i tedeschi utilizzarono dei proiettili a gas, in trenta secondi morirono seicento soldati italiani, in quanto del tutto impreparati ad affrontare un attacco in quella zona.1

Le sofferenze patite nelle trincee sono state per lungo tempo messe in secondo piano in quanto si è privilegiata una narrazione tendente a vedere la Prima guerra mondiale come l’ultimo conflitto risorgimentale senza sottolineare il fatto che non tutta la popolazione delle regioni sotto il controllo austriaco aveva intenzione di essere annessa all’Italia. Nello stesso tempo è stato evidenziato l’eroismo dei soldati italiani, mettendo in secondo piano le immense sofferenze patite dai soldati stessi e le responsabilità dei vertici militari nella gestione della guerra, e in particolare della rovinosa disfatta di Caporetto che ingiustamente venne addossata ad un presunto scarso spirito combattivo delle truppe. Il regime fascista fu il primo a proporre una tale visione della Prima guerra mondiale in quanto vedeva il conflitto come mito fondante del regime, da qui l’esaltazione dei suoi tratti eroici. Con la fine del regime e fino agli anni Sessanta, la Grande Guerra diventò una vittoria da celebrare sia da parte dei democristiani sia da parte delle sinistre2. Sono gli anni in cui si diede una rappresentazione della guerra come una vittoria nazionale capace di mettere d’accordo tutti gli italiani a prescindere dalla propria fede politica. Si pensi a un film come la Grande Guerra di Monicelli, del 1959. In questo film emergono le durezze della guerra ma infine a prevalere è un certo senso di patriottismo incarnato dai due soldati protagonisti che, loro malgrado, assumono il ruolo degli eroi. Questa visione della guerra venne meno a partire dalla fine degli anni Sessanta quando vennero prodotti dei nuovi lavori scientifici capaci di descrivere le durezze della guerra, i soprusi subiti dai soldati, gli ordini insensati e le fucilazioni.

Si tratta di una interpretazione che venne fatta propria soprattutto dalla cultura di sinistra, che tendeva quindi a contestare quella lettura in chiave patriottica che aveva dominato fino a quel momento. Facendo riferimento di nuovo al cinema basti pensare al film Uomini contro, di Francesco Rosi, del 1970, il quale partendo dal libro di Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano offre un’immagine del conflitto in chiave pacifista e antimilitarista.

In occasione del centenario dello scoppio del conflitto sembra essere emersa una tendenza a privilegiare soprattutto la dimensione personale del conflitto, andando ad analizzare la vita di trincea dei singoli soldati con tutte le difficoltà che l’hanno contraddistinta. In conclusione si può affermare che sono due i punti da sottolineare in merito alla Prima guerra mondiale. Da una parte va evidenziato come il conflitto, in un’ottica politica, militare e sociale ha segnato una svolta periodizzante della storia contemporanea; molti degli aspetti che hanno segnato la storia del Novecento, il nazismo, il fascismo e il comunismo oppure il predominio mondiale degli Stati Uniti hanno avuto infatti come punto di partenza la Prima guerra mondiale.

Dall’altra parte non va però dimenticato che la guerra fu un’immane tragedia che strappò dalle proprie case e dai propri affetti milioni di giovani che nella maggior parte dei casi non si rendevano conto neanche bene per che cosa stessero combattendo. Quanto detto è valido per tutti i paesi coinvolti nel conflitto, ma lo è ancora di più per l’Italia, un paese che da poco tempo aveva raggiunto l’unità, contraddistinto da una notevole arretratezza soprattutto al Sud, il quale, piuttosto che mantenere un profilo adeguato alle proprie capacità, preferì lanciarsi in un’avventura di portata enorme che costò centinaia di migliaia di morti e rappresentò un inutile spreco di risorse, finendo poi per aprire le porte alla dittatura fascista.

 

Achille Conti

1P. Melograni, Storia politica della Grande guerra. 1915-1917, Laterza, Bari, 1969, p. 406

2G. Sabbatucci, La Grande Guerra come fattore di divisione: dalla frattura dell’intervento al dibattito storiografico recente, in L. Di Nucci e E. Galli della Loggia (a cura di ), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea,il Mulino, Bologna, 2003, pp.107-127.