Ze Ndùnine re Brecciaioule: «Mengù, te stéva quase menanne ‘na bastunata»

Ze Ndùnine
Ze Ndùnine

Una solida, profonda e duratura amicizia  legava mio padre con Antonino Beniamino. Quasi coetanei erano cresciuti insieme nel periodo tra le due guerre mondiali e non ci voleva molto a notare che tra di loro correva buon sangue. Antonino proveniva da una famiglia  il cui soprannome indicava anche l’attività prevalente: re brecciaiuole. Era un mestiere molto faticoso e molto difficile; bisognava approfondire la conoscenza delle pietre, individuare le linee di rottura. Il brecciaiolo (o spaccapietre) seduto dall’alba al tramonto su un cumulo di pietre  a furia di colpi di martello secchi e precisi, spezzettava  le pietre grandi fino a farle diventare  breccia che veniva distribuita sulla strade sterrate. Per guadagnare la giornata  occorreva produrre quasi un quarto di metro cubo di breccia vale a dire oltre 5 quintali. Questo mestiere andò in disuso quando apparvero sul mercato a prezzi accessibili i frantoi meccanici alimentati da robusti motori diesel. E così anche Antonino si adeguò e si riciclò.

Antonino, come spesso capitava allora, aveva anche un suo soprannome personale: “Ngokase”. Anche se si irritava ad essere chiamato con il soprannome, un giorno del 1943 raccontò a zio Emilio come si trovò appioppato tal nomignolo. Prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, con la squadra di fondo dello Sci Club Capracotta, partecipò a una gara in un paese delle  Alpi. Quando tornò a casa  agli amici che volevano sapere come era andata raccontò che durante la gara lottò a lungo con un tedesco chiamato “Ngokase” e gli amici cominciarono a prenderlo in giro chiamandolo così.

Tanta era l’amicizia con mio padre che spesso mi portava con sé a pranzo in qualche festa e addirittura ricordo con piacere che qualche volta dormivo a casa sua. Era il compagno di caccia preferito da mio padre al punto che ricevette in regalo uno dei tre preziosi cuccioli di Gemma, la cagnetta di mio padre che in quel periodo aveva fama di essere il più bravo cane da caccia di Capracotta. Ze Ndùnine faceva parte della numerosa squadra  organizzata  da mio padre che cavò per anni le pietre sotto Colle Cornacchia e ogni tanto sfidava Zio Italo ad una singolare prova di forza: impugnando a metà il lungo palo di ferro dal peso di circa 15 Kg, venivano contate le volte che dal braccio disteso il palo veniva portato a toccare il petto.

Anche dopo il nostro trasferimento in Agnone nel 1952 l’amicizia non venne meno, anche se le loro strade si divisero. Quando Ze Ndùnine vinse l’appalto in Agnone  per ricostruire il campanile della Chiesa di San Pietro venne spesso a pranzo da noi. Il nostro trasferimento in Agnone rallentò le visite di tutta la mia famiglia a Capracotta e furono poche le occasioni per tornarvi; pur così vicini in linea d’aria, le due strade che congiungevano Agnone e Capracotta erano lunghe, tortuose, non asfaltate  e  i  pullman impiegavano ore in viaggi che il più delle volte erano avventurosi, soprattutto d’inverno. Poi mio padre comprò nel 1954 un motofurgone e fu costruita la strada che da Guado Liscia, attraverso la contrada Macchia, raggiungeva più velocemente Capracotta dimezzando la distanza e i tempi. Si può dire che non trascorresse settimana senza che mio padre tornasse tra i suoi amici sia per trasporto di merci, soprattutto vino, che per il gusto di tornare a cacciare nei posti dove era cresciuto.

Incontrare Ze Ndùnine era sempre un piacere e inevitabilmente chiedeva come procedevano i miei studi: «Mengù che fià? E che ffà Carmenone?» (Minguccio che fai e cosa fa tua padre?). Dopo la morte di mio padre, incontrarlo era come sfogliare insieme un fantastico album di fotografie: l’organetto di mio padre, i racconti di caccia, i lavori, gli scherzi, anche se il tutto era velato da un filo appena percettibile di malinconia. Un giorno, in una splendida giornata di sole, imboccai Corso Sant’Antonio per andare in Piazza e da lontano lo vidi seduto di fronte casa sua con il bastone vicino. Mi balenò in testa l’idea di fargli uno scherzo tanto ero sicuro che mi avrebbe perdonato tutto. Con la barba lunga e ben vestito, potevo essere scambiato per un turista di passaggio. Così mi avvicinai  e «scusate, cerco il signor Ngokase…». Ebbe un sussulto, un attimo di smarrimento, fece per prendere  il bastone, poi mi inquadrò bene e «Mengù te stéva quase menanne na bastunata!» (Minguccio, stavo quasi per darti una bastonata!). Scoppiammo entrambi a ridere. Ze Ndùnine  si alzò e mi abbracciò calorosamente.

Domenico Di Nucci