Uagliò, mò o te muore o nd’ammiale cchiù!

Il dottore Sergio Labanca

Avevo 16 anni e mancavano appena una decina di giorni alla chiusura dell’anno scolastico del 1958; una stranissima debolezza mi aveva colpito da quasi una settimana  quando improvvisamente una mattina mi svegliai in preda ad una altissima febbre. Restai a letto e venne a visitarmi il dottore di famiglia. Il dottor  Sergio Emanuele Labanca, per tutti don Sergio, abitava  a una cinquantina di metri da casa nostra e amava tanto il dialetto al punto che spesso si rivolgeva ai pazienti con un suo linguaggio infarcito da termini dialettali. Completamente intontito, febbricitante e con un tremendo mal di testa feci fatica a rispondere alle sue domande. La sera dopo nel dormiveglia captai poche parole dal discorso che don Sergio fece ai miei genitori: «tifo o paratifo. Tre casi  con stessi sintomi nel centro storico, forse infezione contratta dal latte». Dall’espressione dei miei genitori capii che era una brutta malattia. L’unica che veniva nella mia camera era mia madre e non vidi le mie sorelle e mio padre per tutta la durata della malattia.Venne meno l’appetito, la febbre e l’emicrania mi tormentavano. Ogni sera sempre alla stessa ora don Sergio concludeva il giro di visite e veniva a casa per curarmi. Le prime sere mi trovava talmente debole e facevo fatica a tenere gli occhi aperti; captai però una frase: «Carmenù so menute a vedè  s’è angora vive» (Carmine, sono venuto a controllare se è ancora vivo). Dopo una decina di giorni cominciai ad avvertire qualche lieve sintomo di miglioramento  anche se un paio di volte mi svegliai con il cuscino completamente intriso di sangue fuoriuscito dal naso; le ciliegie cotte erano l’unico alimento che riuscivo a mangiare. Come in un sogno intravidi Zia Mariangela (zia di mio padre) e i figli  che sfidarono anche il rischio del contagio pur di salutarmi: sarebbero partiti per raggiungere in America Zio Amerigo Sozio, suo marito, quel famoso capracottese che si salvò dal naufragio dell’Andrea Doria.
Dopo una ventina di giorni riuscii a sedermi sul letto debolissimo e magro come un chiodo; poi riacquistai un poco di forze e un bel giorno  don Sergio mi disse che potevo uscire senza allontanarmi dal portone di casa e  senza sudare. Trascorsi tutta la mattinata seduto sui gradini di casa; a mezzogiorno mandai giù qualche boccone; feci un riposino e  scesi  a sedermi di nuovo sui gradini. Una noia insopportabile; il tempo non passava mai.
Improvvisamente mi arrivarono le voci dei  miei amici che iniziavano a giocare a pallone nel solito posto, 10 metri più in là, nel largo davanti la Chiesa di San Francesco. Mi venne voglia di partecipare almeno da spettatore e così lemme lemme andai a sedermi  sulla tribunetta dei  gradini della casa di Luigi Appugliese.
I miei amici mi fecero un poco di festa  e poi … mi invitarono a tirare giusto due calci; la magia del gioco prese il sopravvento e, non pensando più alle raccomandazioni che mi aveva dato don Sergio, non mi limitai ai due calci; ci suddividemmo in due squadrette, ricominciai a correre e a sudare  come se nulla mi fosse accaduto fino a quando mi sentii afferrato per un orecchio e mi buscai  anche un calcio sul sedere: era don Sergio e mi rimproverò aspramente, poi concluse: “Uagliò …mò o te muore o nd’ammiale cchiù… E ne me menì chiù a chiamà!”  (Incosciente,adesso o muori o non ti ammali più! E se non starai bene non ricorre più alle mie cure!).
Non ebbi  ricadute e da allora non ho bevuto più latte; la profezia  del  caro don Sergio fu perfettamente verificata! Quest’anno, a  56 anni da quella salutare tirata di orecchio, in questa balorda invernata, complici  l’età (72 anni) e forse i virus che dall’asilo nido mi ha portato in casa una delle mie dilette nipotine,mi sono ammalato per la prima volta contraendo una leggera ma fastidiosa influenza.

Domenico Di Nucci