Ngurɘ ngurɘ, comɘ rɘ cuórnɘ dɘ rɘ falgiatórɘ

Contadino fa il filo alla falce con la “cota”. Foto: Angelo Siciliano

Questo vecchio motto capracottese trae spunto da un’antica tradizione agricola. Quando la terra, nonostante la rotazione delle coltivazioni, dava segni di stanchezza con scarsa produttività, si seminava la lupinella e per tre anni si falciava; il quarto anno quel terreno veniva di nuovo messo in coltivazione dopo un prezioso sovescio.

Altri terreni erano tenuti permanentemente a prato ed il fieno che ci si ricavava era destinato ad alimentare cavalli, asini, muli, capre e mucche e piccoli greggi (che non affrontavano la transumanza) nel periodo invernale. A primavera inoltrata molti capracottesi tra cui mio padre e zio Giovanni, zio Italo e zɘ Carmɘnɘ Pɘtracca (zio Carmine Fiadino), si trasformavano in falciatori: armati di falció (falce fienaia), di un corno situato appena di lato nella cintura per tenere sempre in acqua la pietra affilatrice (detta cota), della tipica incudine e della martellina pɘ rɘndɘcchɘruà (per rifare il filo alla falce fienaia), di buonora si recavano a piedi perfino a Staffoli pur di racimolare il magro salario giornaliero.

Sembrava in apparenza un lavoro poco faticoso ma non era così:  prima di tutto il  falciatore doveva essere molto abile  per tenere il falcione perfettamente affilato e tagliente, poi doveva avere  forza, agilità e perizia per coordinare i movimenti  e per evitare gli improvvisi ostacoli.  

Quasi sempre  era tutta una squadra che falciava: tutti in fila a mantenere, come in una studiata coreografia, il ritmo che spesso veniva dato dal più bravo e capace.

Tra i falciatori si verificava lentamente una selezione che portava il più bravo della squadra avanti a tutti e sulla sinistra:  era una prova di forza. Infatti partendo tutti in fila se di due falciatori il più bravo era a destra, dopo un poco l’erba che falciava andava sull’erba non tagliata di quello che stava a sinistra e così bisognava invertire i posti e il falciatore più bravo saltava avanti sulla fila di sinistra fino a precedere tutti.

Zɘ Nɘcòla de Curdischɘ (zio Nicola Di Nucci), zɘ Giuannɘ (Zio Giovanni), fratello di mio padre e Raimóndɘ dɘ Cénnaflòra (Raimondo Di Rienzo) erano rinomati falciatori, facevano filare i falcioni come il vento e non avevano rivali.

Indubbiamente il più bravo di tutti era mio padre anche perché sapeva tenere il falcione in ordine e perfettamente affilato e zio Carmɘnɘe Petracca (zio Carmine Fiadino marito di Zia Gina) mi ha più volte raccontato con emozione quando gli chiese di preparare il suo falcione per meglio competere in una sfida, che poi vinse,  tra tanti falciatori . 

Ogni tanto, se spaventata, volava una quaglia che stava covando ed allora intorno al nido non si falciava per consentire al volatile di portare a termine la cova;   qualche rara volta, la quaglia non si accorgeva del pericolo e finiva in malo modo così come capitava anche a qualche serpente.

L’erba tagliata veniva lasciata per due o tre giorni sul posto per seccare; per evitare che ammuffisse, bisognava rivoltarla con attenzione con una forca perché spesso  serpenti e vipere approfittavano del caldo e umido riparo.

Con forche e rastrelli il fieno veniva riunito in grossi mucchi e inserito in attrezzi particolari chiamati ritɘ che erano adatti per il trasporto con animali da soma:  con due enormi salsicciotti,  uno per lato, legati alla varda (al basto), asini, muli e cavalli arrancavano barcollando fino alla paglièra (locale dove veniva conservato il fieno), posta quasi sempre al piano superiore della stalla.

In alternativa in un prato più vicino possibile alla stalla, veniva costruito rɘ stigliɘ (il pagliaio): un palo al centro e mano mano strato su strato il fieno veniva compresso da una persona che con abilità riusciva a formare un cono alto a volte quattro o cinque metri. Così il fieno si conservava per molto tempo e l’acqua piovana non penetrava all’interno;    quando poi  serviva, con una speciale sega si  tagliava una fetta rɘ stigliɘ.

Il saltuario mestiere di falciatore cadde in disuso inevitabilmente dopo gli anni 50 sia per l’emigrazione e sia  con la comparsa delle motofalciatrici e delle barre falcianti da applicare ai trattori; questa innovazione contribuì anche ad aumentare il numero di ovini e bovini stanziali perché diventava molto più facile e veloce l’approvvigionamento del fieno necessario per alimentarli d’inverno  nella stalla.

Il progresso non può né deve essere un ostacolo al fluire dei tempi ma nulla e nessuno può cancellare  spettacoli e  sensazioni come il caratteristico fruscio del falcione, il profumo dell’erba  appena tagliata, il balletto della fila dei falciatori.

Perciò, Ngurɘ ngurɘ, comɘ rɘ cuórnɘ dɘ rɘ falgiató (cioè: dietro dietro come il corno del falciatore) oggi è è un modo di dire che per molti, che non hanno mai visto un falciatore in azione, è purtroppo del tutto incomprensibile.

Domenico Di Nucci

Dal volume”I Fiori del Paradiso”