I garofani di Don Giacinto ed altre storie

Don Giacinto Conti (4/4/1873 – 9/2/1961) con sul bavero  il nastrino nero, in segno di lutto per la morte della moglie, seduto nei pressi dell’abitazione.

Il ramo sanitario della famiglia “Conti” era all’epoca oggetto di particolare considerazione che induceva il “cafone” di siloniana memoria ed il paesano di umili natali a levarsi il cappello, in segno di “rispetto”, quando rivolgeva il suo deferente saluto ad un esponente della stessa.

La Farmacia di don Alfredo Conti, in fondo alla scesa della piazza e di fronte al negozio di Alfonso, era il punto di ritrovo degli amici democristiani del farmacista i quali nella buona stagione, grazie alla temperatura mite, si intrattenevano di solito all’esterno dinanzi alla farmacia, per godere della piacevole atmosfera e del rispettoso saluto dei passanti.

All’ultimo piano di casa Conti c’era l’abitazione del fratello di don Alfredo, don Giacinto, che i nipoti chiavano affettuosamente “Tatone”; quest’ultimo non solo non faceva parte della combriccola democristiana ma non aveva con essa rapporti di grande cordialità.

Una mattina, visto il gruppo degli amici seduti giù in strada al solito posto, non seppe resistere alla tentazione di annaffiare i garofani esposti sul davanzale della sua finestra che, guarda caso, affacciava proprio sulla farmacia.

Ottenne così un duplice risultato: bagnò i garofani alla finestra e quelli di sotto.

Al maresciallo dei carabinieri, chiamato dai malcapitati a prendere provvedimenti nei confronti dello screanzato giardiniere, don Giacinto, mostrando il vaso dei fiori esposti alla finestra si giustificò candidamente dicendo: “Annaffiavo i miei garofani”; intendendo in cuor suo soprattutto quelli di sotto.  Il temine “garofano” riferito a persona indica infatti, a Capracotta, qualcuno di cui non fidarsi troppo e nei confronti del quale è bene essere guardinghi.

Intelligente, arguto, simpatico, comunista atipico, antifascista ed anticlericale, don Giacinto, orafo di professione, era noto soprattutto per le ripetizioni agli alunni della scuola elementare ed a quelli che si preparavano all’esame di ammissione alla media inferiore. In prossimità della riapertura delle scuole era solito ripetere che “ad ottobre finiscono le vacanze estive e per i maestri iniziano quelle autunnali”. 

  Lo vedevamo di solito solo quando claudicante, il viso disteso ed i baffi curati all’insù, appoggiato al suo immancabile bastone e con indosso una corta mantellina che gli copriva appena le natiche, usciva di casa per recarsi, “sotto la via nuova”, al suo amato giardino, unico nel suo genere in paese, dove coltivava amorevolmente i suoi fiori e curava alcuni alberi di pere e di mele.

Capitava a volte che qualche monello si introducesse di notte nel giardino per assaporare furtivamente quei frutti che in un paese di montagna solo le attenzioni di don Giacinto, la cui pazienza veniva messa a dura prova dagli intrusi, riuscivano a coltivare.

Persona riservata, aveva frequentazioni ristrette, selezionate ma aveva profonda conoscenza dei fatti e delle persone del paese che divenivano non di rado oggetto della sua pungente ironia.

E non risparmiò in questo nemmeno suo fratello prete, Don Annibale, persona di grande bontà che cercò inutilmente di sedurre travestendosi da donna.

Era davvero incontenibile; si dice abbia versato nerofumo e peperoncino nell’acquasantiera della chiesa e nel corso di una funzione religiosa abbia suonato all’organo l’Internazionale socialista!

Mi ha recentemente raccontato Giacinto, suo nipote omonimo, che un anno ai due maiali allevati come usava una volta per il fabbisogno familiare del lungo inverno, mise nome Benito ed Adolfo; fu poi assai più contento di sacrificarli.

Lo stesso nipote ha confermato che un anno i figli residenti in altre regioni, uno a Sacile e l’altro a Caserta, per molto tempo non si erano fatti vivi motivo per cui don Giacinto pensò, a modo suo, di dar loro una lezione. Recatosi all’Ufficio postale costrinse la titolare, la signora Lina, a spedire loro un telegramma che annunciava la morte di “Tatone”; la triste quanto inattesa notizia costrinse i due fratelli a mettersi prontamente in viaggio. Quando però arrivarono, non senza qualche rimorso verso la memoria del padre e pronti a partecipare alle esequie dello stesso, lo trovarono sulla soglia di casa vivo e vegeto a rimarcare che “allora conto più da morto che da vivo”!

Questo straordinario personaggio, apparentemente uscito da un racconto fantastico, ha poi riunito figli e nipoti intorno a sé per l’estremo saluto solo molto dopo, il 9 febbraio 1961 all’età di 88 anni.

Vincenzino Di Nardo