Due capracottesi alla scoperta de la “Mereca”

Museo Navale di Madrid: lo sbarco di Colombo nel continente americano

Era l’anno 1490 quando due giovani intraprendenti lasciarono il paese nativo. In una domenica insipida di un fine estate bighellonavano fra prati e sassi, contemplando la noia del giorno riservato al Signore. Inoltratisi fra sentieri a loro conosciuti e tagliando per altri paesi dove sostavano per rifocillarsi, arrivarono sul litorale di Casalbordino. Restarono stupefatti.

“Cumbà e quess e ru mar?”.

“Frechete nne arrivene l’uocchie a vedè ca ce sctà all’aldra part!

“La bon alma de tatone m’accundava ca alloch all’aldra part ce sctà na terra nova addò ce sctien certa genda sctreusa”.

“Eh, quir, ri viecchie de na vota ammendaven sctrammocchera pe pegliè pe fess ri neput;  na vota ca ri neput ze ne evene iute ze sccattaven pe la risa!”.

Rimasero molto tempo a rimirare il mare e il gioco che le onde facevano sulla riva. Uno dei ragazzi fu investito da uno spruzzo e si meravigliò che quell’acqua fosse salata.

“Arrefrechet ru fra ca chescta è pur salata! Acquanda chiel la pascta nne ce scta besuogn de mettc le sal!”.

L’altro intinse il dito nel liquido e assaggiò rimanendo meravigliato.

Quei ragazzi avevano visto il mare ma non conoscevano ancora l’oceano.

Si guardarono negli occhi e di comune intento senza nemmeno parlarsi decisero di partire per la ignota terra della quale raccontava il nonno per ridere della loro semplicità di bambini increduli.

Decisero di mettere assieme due portoni rotti e abbandonati che avevano visto lungo la strada, durante il loro viaggio da Capracotta a Casalbordino. Tornarono indietro e se li caricarono sulle spalle, uno per ciascuno. Assemblarono quel legnume con corde e chiodi rosi dalla salsedine rimasti in grovigli e mucchietti rugginosi sulla riva pietrosa dell’Adriatico.

Dopo essersi inginocchiati e avere pregato “sanda Lucia e sand’Andogn” si avventurarono in mare sulla improvvisata imbarcazione.

Spinti dalla corrente, la zattera andò alla deriva fino a quando il mare decise di incattivire le onde e le acque con uno spumeggiante ruggito cattivo. L’imbarcazione si arrestò e non andava né avanti né indietro. Rimaneva sballottata senza avanzare. Ma l’inventiva dei due capracottesi prese il sopravvento sulla paura, e trascorse poche ore al calmarsi della furia, un venticello di bonaccia si fece sentire. I due si tolsero la mutanda di lana innalzandola sulla pertica che serviva da remo. Navigavano così più veloci e non facevano la fatica di remare.

Dopo tre giorni di navigazione approdarono nel tavoliere delle puglie per rifornirsi di acqua dolce e di viveri. Non sapevano dove si trovassero e dopo essere sbarcati e essersi dissetati ad una fonte, videro un gregge al pascolo. Presero di assalto due capre, le scannarono e ne mangiarono la carne cruda. Il restante lo portarono sulla zattera come riserva.

Cielo e mare, mare e cielo. Erano in compagnia di un solo colore con le sue sfumature di azzurro celeste tranne il nero cupo nelle notti appena rischiarato dal lume della luna o da pietose stelle.

Avevano perso il senso del tempo e furono presi da grande paura. Avevano fame e sete dopo lo sbarco sulle coste pugliesi la carne delle capre aveva cominciato a imputridire; avendola mangiato per fame furono presi da violente coliche e vomitarono tutto il giorno. Spossati dalla stanchezza si addormentarono cullati dallo sciabordare delle onde.

“Hoi oi! Deceva une”, Pure joie! Arrespunneva l’ualdre”.

“Ertuja, ma è le ver ca davendr arru mar ce sctiene ri pisc? Se accuscì è vedemm se ne putemm acchiappà cocche d’un ca ij mo me mor de fam!”.

Sulle mutande fatte vela era rimasto l’olezzo delle capre putrefatte, ne stesero una a poppa e una a prua e non tardarono ad avvicinarsi due pesci dalla foggia orripilante che rimanendo incastrati nelle maglie di lana di pecora servirono a sfamare i due indomiti capracottesi improvvisatisi marinai.

Impararono anche a dissetarsi usando una busta di plastica che si erano portati – voi direte: a quel tempo la plastica mica c’era! – e sti cazzi! Mica mi potete rovinare il racconto spiattellando le vostre pignolerie!

Tesero la busta su quattro stecche di legno ricavate da schegge dei portoni misero l’acqua di mare in un incavo dei portoni. Il cocente sole faceva evaporare l’acqua che condensando si raccoglieva a goccioline sulla base della busta. Leccavano a turno il distillato di mare. Certo non era come l’acqua del Verrino, ma che vuò fa! In quella situazione ci si doveva per forza accontentare.

Trovatisi ad accettare “ab collo torto” la problematica di rimanere in vita mangiando pesci schifosi e bevendo acqua distillata proseguirono giorni e giorni e notti e notti lasciando il mediterraneo. Passando per le colonne di Ercole andarono incontro all’oceano.

Era un antico dio longobardo quello che li guidava verso il nuovo mondo?

Avendo perso il concetto di tempo si ragionavano in termini di giorno e notte. A volte il giorno li ingannava quando il cielo si copriva di nuvole nere tanto da non fare trasparire la luce del sole e i due navigatori fradici di pioggia e oltremodo impauriti si tenevano stretti per non cadere in mare ed essere preda delle onde che si gonfiavano intorno alla misera imbarcazione.

Per aggredire la paura pensavano alla neve alta nel loro paese in pieno inverno quando per uscire di casa dovevano scavalcare la finestra del piano superiore.

Passate le violente burrasche un sole tiepido li trovava abbracciati nell’aria salmastra del mattino e rinnovando lo sperimentato rito della mutanda usata come esca tornavano a catturare qualche sparuto pesciolino che girando intorno alla zattera forse si chiedeva: “Ma da addò cazz vien si pellegrin, e addò vien gerenn pe  mmiezz all’oceano?”.

Rassegnato a diventare pasto dei due indomiti capracottesi, il pesciolino reclinava il capino smettendo di dibattersi nelle maglie di lana di pecora.

Dalla loro partenza dai lidi dell’Adriatico erano passati mesi, forse anni. I ragazzi avevano la barba lunga e i loro corpi erano incrostati dalla salsedine. Non riuscivano ad articolare la bocca e avevano imparato a comunicare con gli sguardi.  La loro pelle nuda bruciata dal sole faceva brillare la croste di sale che si era accumulata sui loro corpi. Pensarono alla vita e a come liberarsi da quella eterna morte in comunione con il mare e a rimanere vivi a dispetto del tempo che non aveva più senso chiamarlo tale.

Stremati si appiattirono sulla zattera e rimasero così, “come corpo che caduto, muore”.

Passarono su di loro un’altra notte, o altri giorni. Un mattino li trovò con gli occhi ancora semiaperti mentre una colomba con nel becco un ramoscello di “vasa necola” svolazzava sopra la misera imbarcazione, ormai ridotta a poltiglia galleggiante, incuriosita dall’insolita apparizione.

“Hoi oi! Ru fra, tu ce sctié angora?”.

“Nne le sacce, ma me sembra ca haie viscte ne piccion ca vva gerenne pe ecch tuorn!”.

“Forse ze semme muort e nne ze ne semme mang addunat!”.

La colomba persisteva nel volteggiare sulla ormai sconquassata zattera e solo quando questa lasciò cadere sui due il ramoscello che aveva nel becco, i perspicaci capracottesi si resero conto, seppure mezzi morti, che la terra era vicina.

Raccolsero quello che rimaneva dei loro corpi e con la forza della disperazione unita a un grande entusiasmo si misero a remare con braccia e mani portando il fradicio legno fino a riva.

Una sabbia fine colore dell’oro apparve ai loro occhi quasi chiusi e incollati dall’acqua di mare, e alberi strani che non avevano mai visto, dai quali pendevano strani frutti “nazzicati” dal vento, facevano loro ombra. Crollarono sul litorale e si addormentarono lieti.

Degli impavidi navigatori capracottesi non si seppe mai nulla ma il 12 ottobre dell’anno di grazia 1492 un certo Cristobal Colòn, approdando su quelle rive trovò i miseri resti di due ragazzi e due medagliette con impressa l’immagine di santa Lucia.

 Gustavo Tempesta Petresine