Erranza o Restanza?: un dilemma lacerante

Panorama Capracotta Paolo Dell'Armi

Archivio fotografico: Paolo Dell’Armi

Dedicandomi alla lettura, hanno attirato la mia attenzione in questi mesi le parole che ho scelto come titolo: “ERRANZA” e “RESTANZA”; della prima ricordavo vagamente il significato storico come di “penosa incertezza, dubbio o errore”, ma riflettevo poi all’altra, più nota accezione: quella che si riferisce:

“alla migrazione da un luogo all’altro”

e, in particolare, all’abbandono della propria terra” per raggiungere mete più o meno lontane: proprio come nel romanzo di Eugène Sue, “L’Ebreo errante”.

Il secondo termine, di antica origine popolare, deriva certamente dalla regola di non sciupare per nessuna ragione il bene prezioso rappresentato dagli alimenti; persino un pezzetto di pane avanzato, quello appunto “della restanza”, andava utilizzato fino all’ultima briciola ed è superfluo sottolineare la nostra “cultura popolare della conservazione”; del resto tutti i vecchi capracottesi ricordano la tradizione del “pancotto” e tanti altri modi per evitare lo spreco del cibo: esigenza ancor più imprescindibile quando non c’erano i frigoriferi, tranne quelli naturali della neve e del ghiaccio di cui, almeno in passato, potevamo essere orgogliosi.

Pur essendo già diffusa invece, mi sfuggiva il moderno significato attribuito dal professor Vito Teti alla parola “restanza”, quasi un neologismo che indica:

 “la condizione di chi rimane a vivere, per scelta   o per necessità, nel luogo di cui è originario”; “il che significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e allo stesso tempo da rigenerare radicalmente”;

si deve a questa originale interpretazione se il suo concetto è stato esteso al lato più nascosto e paradossale della mobilità umana: erranti e  restanti cioè, come protagonisti della stessa vicenda umana e sociale.

“Non è necessario lasciare la propria terra per affermare il valore della propria creatività. In fondo chi decide di viaggiare, il mondo può solo guardarlo, mentre chi mette radici può capire di più il significato della realtà che lo circonda, può interpretarlo. Sono le idee che devono viaggiare, più delle gambe degli uomini”.

Colpisce molto la recensione dell’ultimo libro del professor Vito Teti, pubblicata sul “Corriere della Sera” il 24 aprile u.s.; nel suo titolo si legge:

“Presidiare i luoghi di origine non è stanca rassegnazione”

e perciò, a maggior ragione per un capracottese, “restanza” non può voler dire:

“chiusura né pretesto per artificiosi contrasti tra chi è partito e chi è rimasto, tra chi è rimasto e chi arriva o ritorna”.

A tale proposito, nel corso degli anni ho avuto notizia, ogni tanto, di contrapposizioni e talora di veri e propri dissapori in paese che, fortunatamente, non mi risulta abbiano mai provocato strascichi duraturi e, tanto meno, divisioni profonde; sono certo anzi che, a smorzare provvidenzialmente tali incomprensioni, abbia contribuito la ricorrenza fraternizzante della festa dell’Otto Settembre.

Nessuno nega che quest’ultima, di cui è indiscutibile il valore umano e religioso, sia anche espressione di “Folklore”, ma questa parola anglosassone (“Folk-Lore”), lungi da connotazioni negative, significa proprio

“l’insieme di fatti e credenze tradizionali di un popolo”:

motivo per cui la nostra festa ha sempre rappresentato uno straordinario momento di coesione e di Fede, sia per i restanti che per gli erranti.

È innegabile che moltissimi cittadini di Capracotta, veri e propri “zingari” come vengono chiamati, siano stati obbligati alla scelta dolorosa dell’esilio che, lungi dall’affievolire la loro inventiva e la loro operosità le ha sempre, incredibilmente esaltate; per ciò che può valere la mia opinione, anch’io sono convinto che, con un “villaggio della memoria” nel cuore, abbiano sempre dimostrato di essere veri cosmopoliti e sono molto convincenti le pagine del nostro libro sull’emigrazione, “A la Mèreca” che ho spesso ricordato.

D’altro canto non sorprende che gli abitanti di alcune isole oceaniche siano stati definiti “cosmopoliti indigeni “e fa riflettere sapere che anche in Italia, a Palermo, esiste un “Museo della Restanza”; mi piace anzi pensare, pur non avendolo mai visitato, che assomigli un po’ a quello della civiltà contadina di Capracotta ed anche, perché no? al mio “micro-villaggio della memoria”, la vecchia casa che mi ha visto nascere ed in cui sogno ancora di essere.

In ogni caso, sebbene difficile da dimostrare, è davvero prezioso il contributo di sacrificio e di iniziative di coloro che rimangono o che almeno riescano a trasformare idealmente in un “ritorno stabile” la propria “nostalgia”; non si può sottovalutare, peraltro, il disagio correlato allo spopolamento delle aree interne e montane: chi resta deve poter contare sui servizi essenziali e, soprattutto, deve potersi liberare dallo stereotipo collettivo di una permanenza esclusivamente difensiva.

Va naturalmente sottolineato, purtroppo, l’impatto negativo attuale della grave crisi economica, della carenza di servizi socio-sanitari e persino, incredibilmente, della guerra; sono tuttavia fiducioso che si possa dar vita ad un “nuovo inizio” raccogliendo la sfida di promuovere una vera alleanza strategica tra erranti e restanti, sebbene non possa che spaventare la crescente sproporzione numerica tra gli uni e gli altri.

Così, sebbene possa sembrare un’utopia, mi ostino a confidare nella fraterna e costruttiva relazione tra queste due, in apparenza tanto diverse esperienze di vita che, a mio giudizio, ha già consentito di raggiungere significativi, sia pur modesti risultati a Capracotta: specie nel settore dell’ambiente, dello sport e del turismo sostenibile, compreso quello modernamente definito “delle radici”.

Sarà fondamentale impedire ad ogni costo ciò che molti scongiurano con un terribile monito:

“i nostri luoghi e i nostri monti non diventino una

malinconica meta per irriducibili esteti delle rovine”.

È superfluo sottolineare come questo lusinghiero “piano di recupero e resilienza” sia rivolto, almeno in prevalenza, alle nuove generazioni, ma bisogna sperare che tutti possano fungere da catalizzatore, specie nelle ancor maggiori difficoltà del presente; l’importante è che non si prescinda dal prezioso contributo degli anziani, memoria storica di ogni comunità ed è certamente questa la sfida più impegnativa: proprio come ripete instancabilmente anche il santo padre, Papa Francesco.

A questo punto, rinnovando il fermo proposito di vivere in modo meno deprimente e più creativo la mia “nostalgia”, faccio voti affinché si intensifichino e si moltiplichino gli sforzi nella direzione che dicevo: voglio anzi sperare che anche un vecchio “errante” (o “restante”?) come me possa contribuire idealmente a questo traguardo; e chissà che le parole, nella loro magica imprevedibilità, non ci aiutino davvero: sarebbe bellissimo!

Intanto mi auguro che tutti possiamo sentirci un po’meno esiliati e che ci lasciamo finalmente alle spalle l’antico, lacerante dilemma tra “ERRANZA” e “RESTANZA”

Aldo Trotta

Bibliografia:

Vito Teti, Nostalgia, Marietti editore 2020

Vito Teti, La Restanza, Einaudi editore 20 22

Eugène Sue, L’ Ebreo errante, Rusconi editore 2022