Una bandiera per la pace

Neanche a farlo apposta, proprio alcuni giorni fa ricordavo che spesso mi basta un’occasione, ancorché piccola, per scrivere di una persona o di un avvenimento e rivivere così, una grandissima emozione; è quanto mi è di nuovo capitato osservando la fotografia di due amici che, su di una scala, stavano esponendo a Capracotta uno striscione con le parole augurali:

“PACE NEL MONDO”.

Si tratta di un vessillo con i colori della cosiddetta “bandiera della pace” regalato dal caro amico Natalino Sozio e non è certamente casuale che abbia deciso di realizzarlo nell’imminenza degli 80 anni dalla distruzione del nostro paese, nel 1943: che entrambi abbiamo vissuto sebbene io fossi allora davvero piccolissimo; sono tante, come è noto, le testimonianze scritte di quel tragico periodo, a cominciare dal racconto di  mia madre Cesarina del 1983 e di tanti altri che sarebbe impossibile citare.

Per la sua sofferta storia non sorprende che anche da Capracotta, in cui fino a non molti anni fa’ c’erano ancora i segni della guerra, si levi l’ennesimo appello alla pace: specie in un momento in cui il frastuono di un nuovo conflitto è tornato ad essere così vicino e minaccioso in Europa; ed è inevitabile riflettere al versetto del Vangelo di San Matteo tratto dal “Discorso della Montagna”:

“Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”

(Mt 5,9).

Così, ho riletto con piacere l’enciclica dal papa Giovanni XXIII, scritta poco prima della sua scomparsa nel 1963: la “PACEM IN TERRIS”; di essa mi hanno particolarmente colpito le parole introduttive:

“La Pace in terra, anelito profondo degli essere umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio”.

Si può temere infatti, tanto più dopo 60 anni, che esse significhino la sconfitta dell’umanità, incapace di comprendere quanto siano pretestuose, talora persino ridicole, le motivazioni addotte per giustificare un conflitto armato; altrettanto incisive ed eloquenti suonano le parole di Kalil Gibran che diceva:

“Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola!”.

   Esse dovrebbero invitarci a guardare il nostro mondo dall’alto, dalle nuvole, dimenticando tutto ciò che siamo abituati a considerare di contrasto o di confine: cosa distingue, in fondo, una nazione da un’altra? Avremmo il dovere di perseguire la pace già nel nostro vivere quotidiano, di abbattere i muri e costruire i ponti; e pensare che ora gli uomini non solo sovrastano le nuvole, ma hanno persino la possibilità di osservare dai veicoli spaziali la meraviglia del nostro pianeta che rappresenta l’unica dimora di tutti; al contrario si confermano tuttora inquietanti diversi capitoli di quell’enciclica. Ad esempio quello in cui si ribadisce che:

“Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse;

Oppure un altro in cui si legge:

“Le persone investite di autorità devono avere idee chiare sulla natura e sull’ampiezza dei loro compiti; e devono essere persone di grande equilibrio e di spiccata dirittura morale, fornite di intuito pratico, per interpretare con rapidità e obiettivamente i casi concreti, e di volontà decisa e vigorosa per agire con tempestività ed efficacia”.

Basterebbero questi spunti per intere settimane di dibattito politico, culturale e morale, ma sarebbe gravissimo se ci convincessimo che, in fondo, l’umanità non merita il dono della pace; ciò non toglie che in ogni occasione e tipologia di calamità, non esclusa la guerra, si moltiplicano le manifestazioni di solidarietà se non addirittura di abnegazione da parte di tante persone a beneficio delle più deboli, ma tutto ciò non basta certamente a riscattarci.

A mo’ di piccolo esempio personale, quando avevo solo tre mesi di età, sono sopravvissuto a Capracotta grazie al prezioso aiuto dei soldati polacchi che, privandosene, destinavano a me  le loro razioni di latte evaporato; e mi piace ricordare la commozione di alcuni anziani provenienti dalla Polonia e ricoverati nel mio reparto ospedaliero ai quali raccontavo di quel gesto di grande generosità dei loro giovani connazionali; diversi di loro erano poi deceduti, come si apprese in seguito, nella sanguinosa battaglia intorno all’Abbazia di Montecassino.

Così, anche per non cedere allo sconforto più assoluto, sarebbe indispensabile che tutti riscoprissimo la virtù cristiana della speranza; come ci augurava e come non cessa di augurarci la stessa “Pacem in Terris”:

“Allontani il Signore dal cuore degli uomini tutto ciò che può mettere in pericolo la Pace e li trasformi in testimoni di verità, di giustizia e di amore fraterno: …Si affratellino tutti i popoli della terra e fiorisca in essi la desideratissima Pace”.

Resta comunque in agguato il “pessimismo della ragione” e mi piace ritornare ai colori arcobaleno della bandiera della Pace così opportunamente  riproposti anche a Capracotta; e non sembri irriverente che io ricorra, ancora una volta, a una poesia di Gianni Rodari conosciuta con il titolo di “DOPO LA PIOGGIA”:

“Dopo la pioggia viene il sereno
brilla in cielo l’arcobaleno.
È come un ponte imbandierato
e il sole ci passa festeggiato.

È bello guardare a naso in su
le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede, questo è male,
soltanto dopo il temporale.

Non sarebbe più conveniente
il temporale non farlo per niente?
Un arcobaleno senza tempesta,
questa sì che sarebbe una festa.

Sarebbe una festa per tutta la terra
fare la pace prima della guerra”.

Ho tanto timore, a questo punto, che molti sorridano per le parole infantili di questa filastrocca ma…quanto sarebbe bello se si diffondesse ovunque una rinnovata cultura della Pace: a cominciare dai bambini, sebbene ora così pochi, che vivono a Capracotta.

Aldo Trotta