«“Ca” m’vuogl murì alla casa meia»

Vincenzino Di Nardo (1872-1957)

L’emigrazione italiana nelle Americhe ha avuto fin dagli inizi l’Argentina come meta privilegiata; questo importantissimo fenomeno migratorio ha preso l’avvio a partire dagli anni Trenta del 1800 fino alla fine degli anni Cinquanta del 1900, coinvolgendo circa 3.500.000 persone provenienti da quasi tutte le regioni d’Italia. L’impulso maggiore si ebbe soprattutto a partire dalla seconda metà del 1880 quando, al fine di promuovere la produzione agricola e favorire l’ingresso e l’insediamento di immigrati, soprattutto europei, si arrivò ad anticipare agli immigrati le spese di viaggio e quelle necessarie all’insediamento nei lotti di terreno assegnati.

Il viaggio era allucinante e le condizioni igieniche spesso disumane; la sporcizia, l’affollamento, la mancanza di aria e la scarsità di acqua, la promiscuità con passeggeri malati ed in spazi angusti, non di rado erano causa, nel corso della traversata oceanica, di epidemie di malattie infettive.

Alla fine degli anni ’90, su poco più di 400.000 proprietari agricoli oltre il 25% erano stranieri. La capitale, Buenos Aires, ospitava oltre la metà degli immigrati italiani, decisi a migliorare la loro condizione ed animati da un’incredibile volontà di lavorare, spesso mal remunerati.  Questo non di rado provocava negli abitanti del posto la reazione contro gli “italiani venuti a rubare il lavoro ai locali” (Non pare sia cambiato molto l’animo umano in un secolo e mezzo!).

Lo spirito anti-italiano e la volontà di riuscita dei nostri compatrioti rese sempre più compatti i nostri emigrati, senza divisioni tra terroni e polentoni, realizzando vivaci e solide strutture associative capaci di incidere sulla realtà e suscitare talvolta apprensione e reazioni nei rappresentanti locali.

Nel mese di novembre del 1889, la sorella di mia nonna Carolina, Carnevale Tarsilla, emigrata in Argentina con il marito Paglione Antonio a bordo della nave Sirio, aveva trovato una soddisfacente sistemazione a Buenos Aires. Si premurò subito di sollecitare la sorella a raggiungerla con mio nonno Vincenzino Di Nardo (Don Checco, Tatuccio per noi nipoti) ed il piccolo Cicciotto, mio padre. Non fu facile convincere Don Checco a partire, ma la prospettiva di un futuro migliore e le presenti ristrettezze lo spinsero ad andare. Dopo la lunga traversata e l’arrivo in terra straniera, la prima cosa che chiese mio nonno ai cognati fu: «In quale direzione si trova Capracotta?». Non fu un buon inizio; la nostalgia mordeva a tal punto che appena riuscì a risparmiare i soldi per il biglietto, si imbarcò per il viaggio di ritorno. Erano forse trascorsi meno di 4-5 mesi. Un bel giorno, del tutto ignara di ciò che accadeva, mia nonna se lo trovò di fronte sotto il portone di casa a Capracotta; a momenti le prende un colpo. Riavutasi dalla sorpresa gli chiese: «Ma tu cosa ci fai qui?».  Pronta e perentoria la risposta di Tatuccio, che aveva nel corso del ragionamento l’intercalare “ca” che inceppava talvolta il fluire del discorso, «Ca” m’ vuogl murì alla casa meia» (voglio morire a casa mia). Da quel momento nessuno osò più pronunciare la parola America. Ricordo perfettamente che l’unico e solo termine “argentino” pronunciato da mio nonno era “la ciaccaritta” quando intendeva riferirsi al “cimitero”.

“La Chacarita” è il cimitero monumentale storico di Buenos Aires, nato nel 1871 a seguito di una epidemia di febbre gialla, ove sono molte cappelle dai nomi italiani!

Vincenzino Di Nardo