I benefici della musica: quella del nostro organo a Capracotta

L’imponente organo a canne della Chiesa Madre. Foto: Michela Romandino

Come ho avuto occasione di dire recentemente, dopo tanti anni mi è stato possibile trascorrere i giorni festivi dello scorso Natale a Capracotta ed è superfluo sottolineare che è stata grande la mia emozione: tanto più dopo la scomparsa di mia moglie Anna e nell’arcano “silenzio” della mia vecchia casa paterna. La scorsa settimana poi, ripensando ai bei momenti di quel breve periodo, ho cercato di stilare una graduatoria dei loro benefici e non vi è dubbio che il maggiore vantaggio io lo abbia ottenuto riascoltando la musica dell’antico organo della Chiesa: sia nel corso di suggestive celebrazioni religiose come quella della notte di Natale, sia di un concerto del dottor Francesco Di Nardo; che, non debbo certo ricordarlo, oltre a essere un caro amico e collega, è un valoroso “organista” alle cui pregevoli pubblicazioni rinvio tutti coloro che, come me, sono “profani della materia”; io mi limito a un cenno di storia sottolineando che questo strumento sarebbe stato ideato inizialmente, nel III° secolo a.C., dall’ingegnere greco Ktesibios. Si attribuisce a lui l’invenzione del cosiddetto “Hidraulos” in cui un geniale sistema di circolazione dell’aria riusciva a farne risuonare le canne e quindi a superare le limitazioni imposte dal fiato umano; ricordo inoltre che il nostro organo viene definito “Principalone” per la presenza inconsueta del registro ‘Principale 16’  come base della fonica mentre è noto che della sua costruzione si occupò, nel 1700, una famiglia di organari molisani originari di Poggio Sannita, i D’Onofrio. A proposito degli artisti capracottesi del passato, il cui nome è famoso in ambito musicale, non sono certo in grado di citarli tutti, compositori e musicisti e me ne dispiace molto; ricordo perciò, simbolicamente, solo la luminosa figura del professor Giuseppe Di Lullo, che ho avuto il piacere e l’onore di conoscere e di apprezzare.

Mi ha particolarmente colpito una singolare definizione dell’organo che assolutamente non conoscevo e che è stata scritta da “Yehudi Menuhin”, un famoso violinista statunitense scomparso nel 1999:

       “L’organo mi è sempre parso uno strumento degli elementi, uno strumento sovrumano nato dal vento e dalla roccia, dall’aria e dalle forme. Nelle nostre chiese il suo suono rappresenta la voce disincarnata di Dio, perché congiunge la mente del Creatore con la mente umana”.  

Sono convinto, a tale proposito, che non si possano avere dubbi circa l’origine del nostro strumento dall’aria, dal vento e dalla roccia tenendo conto che la Chiesa in cui si trova, la cattedrale di Santa Maria Assunta, si erge in alta montagna, a 1.400 metri di altitudine sul livello del mare; è difficile persino immaginare come sia stato possibile costruirla così in alto sulle “rupi”, oltre due secoli or sono, e soprattutto ipotizzare come i nostri umilissimi antenati abbiano potuto affrontare l’impegno economico e logistico di un’opera così grandiosa.

Mi piacerebbe molto, a questo punto, raccontare tante altre, forse tantissime notizie inedite su questo argomento, ma sarei davvero presuntuoso se cercassi di farlo; preferisco piuttosto, alla luce della mia premessa, rievocare qualcosa di me e della mia storia personale rispetto a quel magnifico simbolo del nostro amato paese.

Da bambino ricordo di aver atteso con impazienza, insieme a diversi coetanei, di poter raggiungere la cantoria dell’organo e di scoprire almeno qualcuno dei suoi fiabeschi segreti; ma il solo modo per poterlo fare era di utilizzare una insicura scaletta che partiva dalla sacrestia e temevo più il bonario rimprovero del vecchio “Vincenzo l’organista”, affettuosamente soprannominato “lo zoppo”, che quel disagevole percorso. Non tardai comunque molto a salirvi nella smania, neanche a dirlo, di cimentarmi con i pesanti mantici dello strumento: che come è noto, prima degli attuali elettroventilatori, erano il solo mezzo per assicurare un potente flusso d’aria alle numerosissime canne; io riuscivo in qualche modo, inizialmente con l’aiuto di qualcuno, ad abbassarne le lunghe e robuste stanghe ma, quando ero ancora piccolo, correvo sistematicamente il rischio di essere poi sollevato di peso e proiettato verso l’alto.

Ogni volta era comunque un’esperienza esaltante che mi faceva sentire un po’ artefice di quel prodigio vocale; a tale riguardo, ho voluto documentarmi giacché mi aveva sempre sorpreso che si facesse riferimento alla “voce” dell’organo e non al suo suono; ho scoperto così che veniva considerato una “metafora dell’uomo” essendo certamente lo strumento che meglio riproduce la voce umana. Non meraviglia quindi, che un musicista contemporaneo, Andrea Macinanti, abbia scritto un libro intitolato “Fabricato alla guisa del corpo umano (L’organo come metafora antropomorfa)” e non stupisce soprattutto che nei canti liturgici del passato remoto si alternassero dei versetti recitati ad altri semplicemente suggeriti dalla musica e conosciuti a memoria.    

Tutto ciò mi ha fatto tornare in mente un famoso brano di Dante Alighieri che rende proprio testimonianza, nel IX° canto del Purgatorio (vv.139-145), all’ alternarsi di voce e di suono:

Io mi rivolsi attento al primo tuono,
Te Deum Laudamus mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea,
ch’or sì, or no s’intendon le parole
;

questi versi, ci avrei scommesso, risvegliano in me il ricordo commosso non solo delle persone che ho avuto accanto negli anni della mia infanzia e della mia giovinezza, ma anche degli amici o dei semplici conoscenti cui sono riuscito a porgere l’estremo saluto in quella Chiesa: sempre lasciando che fosse l’organo a pregare con me. Mi sembra infatti di rivederli mentre ho persino l’impressione di ascoltare, nettissima e commovente, la voce del caro, indimenticabile “Natalino Comegna” che intona il “Libera me, Domine…”; si materializza così davanti a me, quasi stessi sognando a occhi aperti, una lunga teoria di concittadini sconosciuti, scomparsi forse da tempo immemorabile: della cui esistenza, incredibilmente, quell’organo aveva rappresentato l’unica, vera colonna sonora.

 A questo punto, com’era prevedibile, ho il timore di cedere un po’ alla tristezza e non voglio davvero che ciò mi accada; cerco perciò di sfuggire al suo assalto ricordando un altro dei più sereni momenti vissuti Capracotta ormai tanto tempo fa; non tutti sanno che tra i diversi dispositivi di cui era dotato il nostro organo, ce n’era uno chiamato “uccelliera” che purtroppo non è stato possibile ripristinare con il recente e impegnativo restauro cui è stato sottoposto. Si trattava di una semplice vaschetta riempita d’acqua che, raggiunta dal soffio di alcune canne, riproduceva alla perfezione il canto degli uccelli; la consideravo, allora, un meraviglioso gingillo animato e parlante con cui mi dispiace tanto di non aver potuto giocare di nuovo; io, ne sono certo, sarei stato davvero felice di farlo: anche a 80 anni!

Aldo Trotta