In America… sognando Capracotta

Vincenzo Di Rienzo, davanti al suo negozio di alimentari nel 1927. Uno dei primi capracottesi ad aprire un’attività negli Usa.

Gran parte dei primi immigrati negli Stati Uniti provenienti da Capracotta arrivarono nella zona a cavallo del fiume Delaware tra il New Jersey e Filadelfia (Pennsylvania).

Alcuni si stabilirono a Trenton, la capitale del New Jersey e pochi altri a Filadelfia, ma la maggior parte si sistemò in due città più piccole: Burlington City (New Jersey) e Bristol (Pennsylvania) che si trova dall’altra parte del fiume Delaware rispetto a Burlington. Molti sono rimasti a Burlington City mentre altri, dopo essere stati inizialmente ospiti di capracottesi che erano già arrivati lì, dopo qualche tempo, si sono trasferiti altrove.

I loro nomi erano Di Rienzo, Carugno, Di Ianni, Paglione, Sozio, Costello (Del Castello ndt), Carnevale, Ferrelli, Di Tanna e molti altri. Negli ultimi 36 anni è stato un capracottese, Harmand Del Castello, ad essere il sindaco di Burlington City. Darlene (Comegna) Scocca, eletta nel 2003, è l’attuale sindaco.

Ci sono talmente tanti cognomi capracottesi a Burlington City che questa potrebbe, a buon titolo, essere chiamata la città gemella del paese d’origine sulle montagne del Molise. C’è da dire comunque, che molti di questi immigrati si definivano abruzzesi – e alcuni ancora oggi lo fanno – sia per l’affinità che per la vicinanza geografica con quella regione italiana che una volta era unita al Molise.

Arrivavano sui bastimenti come la Cristoforo Colombo, salpati dal porto di Napoli con poche cose e, spesso, senza soldi. Generalmente facevano la traversata in terza classe o sul ponte e non in prima o seconda. Se arrivavano attraverso il porto di New York erano sottoposti ai controlli sanitari ad Ellis Island fino circa al 1930 quando questa struttura fu chiusa. All’entrata del porto erano accolti dalla Statua della Libertà la cui vista rinforzava la loro speranza per un futuro migliore rispetto a quello possibile in un piccolo, povero paese italiano con poco lavoro.

In America alcuni cognomi – spesso la sola ultima lettera – furono cambiati; alcuni fortuitamente ad Ellis Island poiché gli ispettori non conoscevano l’ortografia dei nomi italiani. Altre volte invece, le famiglie italiane cambiarono intenzionalmente il nome per farlo apparire più “americano” ed evitare così di essere discriminati. Ad esempio “Angelaccio” divenne “Angelo”.

Le famiglie dei capracottesi si aiutavano a vicenda. Alcune famiglie condividevano una singola casa (a schiera) fino a quando si potevano permettere ognuna di comprarne o affittarne una propria. Generalmente per primi arrivavano i nonni e i padri, trovavano lavoro e dopo si ricongiungevano con mogli e figli.

Nel corso della prima guerra mondiale alcuni immigrati ritornarono in Italia per combattere per il loro Paese d’origine ma alla fine della guerra tornarono negli Stati Uniti. Altri combatterono con le forze armate americane contro la loro Patria.

Nella seconda guerra mondiale invece, molti immigrati capracottesi insieme ai loro figli che costituivano la prima generazione di italo-americani, combatterono nelle forze armate americane, alcuni persino sul suolo italiano.

Molti degli uomini che da Capracotta arrivarono in America sul finire dell’800 e nella prima metà del ‘900 trovarono impiego in fonderia in stabilimenti come l’U.S. Pipe di Burlington e il Griffith Pipe nelle vicinanze di Florence sempre nel New Jersey.

Altri lavorarono nella costruzione della ferrovia oppure divennero artigiani come muratori o imbianchini, etc. Alcuni aprirono dei negozi di generi alimentari o delle botteghe di calzolai oppure divennero fornai ovvero lavorarono presso piccole imprese messe su dai loro compaesani che erano arrivati in America prima di loro.

Mentre gran parte delle donne rimaneva a casa a cucinare, rammendare o lavorare all’uncinetto, altre lavoravano nell’industria tessile. Altri uomini, donne e bambini lavoravano, spesso a mezza giornata, nelle aziende agricole raccogliendo fagioli ed altri ortaggi. Successivamente alcuni si misero in proprio dopo aver acquistato i loro poderi.

Fino alla fine degli anni ’40 alcuni dei bambini erano costretti a lasciare la scuola per lavorare e dare il loro contributo alla famiglia.

Non c’è bisogno di ricordare che tutti per un po’ dovettero barcamenarsi tra mille difficoltà dal punto di vista finanziario e si consideravano poveri per quanto riguardava i beni materiali ma ricchi perché erano in America. Continuavano a godere dei semplici piaceri della vita come il cantare, fare il vino sotto casa, suonare la fisarmonica, ritrovarsi una volta a settimana insieme a parenti e amici italiani senza, naturalmente, dimenticare il buon cibo italiano come il ragù per la pasta, il brodo di pollo o le polpette.

Tanti avevano il giardino con alberi di fico anche se il terreno era piccolo e frequentavano le chiese cattoliche.

Si tenevano in contatto con i parenti rimasti a Capracotta per mezzo di lettere e, più tardi, telefonate. Negli anni ’50 le famiglie di Burlington, Florence, Bristol insieme al Sindaco di Jersey City, raccolsero venticinquemila dollari e regalarono a Capracotta uno spazzaneve per sostituire quello distrutto dai tedeschi durante la guerra, in modo da poter almeno assicurare la distribuzione della posta e del cibo nei mesi invernali.

Uno dei primi ostacoli che gli immigrati dovevano affrontare era la barriera della lingua. Quasi nessuno parlava inglese e non potevano comunicare bene con chiunque non fosse italiano. I bambini dovettero imparare l’inglese a scuola ed in questo erano incoraggiati dai genitori e dai nonni affinché si assimilassero alla cultura americana. Questo è anche il motivo per cui molti giovani delle nuove generazioni non parlano italiano. Molti delle vecchie generazioni, invece, non hanno mai imparato a parlare un buon inglese o non l’hanno imparato affatto.

L’italiano non faceva parte delle lingue studiate nel sistema scolastico americano e quindi le giovani generazioni non hanno avuto l’opportunità di imparare la lingua delle loro origini. Oggi ci sono dei corsi di italiano in alcune università e qualche corso serale.

I nuovi “americani” hanno dovuto affrontare diverse discriminazioni subito dopo il loro arrivo, soprattutto da parte di altri europei che erano arrivati negli Stati Uniti molto prima e ora occupavano posizioni influenti nelle comunità americane, come gli irlandesi. Queste discriminazioni spesso hanno impedito loro di ottenere i lavori migliori ma, con il passare degli anni, con perseveranza ed educazione, hanno superato la maggior parte di questi problemi

 A causa di problemi di famiglia o per mancanza di adattamento allo stile di vita americano, solo pochi ritornarono a Capracotta.

“Eravamo poveri ma contenti” – ci ha detto Charles Sebastiano Comegno, ottantaseienne, falegname in pensione che si stabilì a Burlington City dopo essere sbarcato ad Ellis Island con sua madre Pasqualina nel 1923 all’età di due anni. Allora si ricongiunsero al padre, ai nonni, a tre zii e al fratello del nonno molti dei quali lavoravano in una fonderia. Gli ispettori di Ellis Island cambiarono l’ultima lettera del loro cognome da Comegna a Comegno.

“Mi ritengo fortunato; – continua – non avrei mai avuto quello che ho oggi – una casa ed una pensione – a Capracotta perché non c’era lavoro lì, ma amo ancora quel piccolo paese che ho visto da soldato americano durante la seconda guerra mondiale e tante altre volte da allora”.

Bruno Sozio che ora, sessantenne, vive a Tom River (New Jersey), arrivò negli anni ’50 con suo padre Americo ed è vissuto a Burlington e poi in Florida, commenta: “lavoravano sodo e venivano pagati – non come succedeva a volte in Italia – e così abbiamo potuto vivere dignitosamente”.

La statua dedicata agli immigrati (emigrati ndr) che si inaugurerà il prossimo 8 settembre a Capracotta è stato il sogno di un cugino di Bruno, Joseph Paglione di Burlington la cui famiglia arrivò sul finire dell’800. Joseph arrivò nel 1958 dopo aver imparato a fare il sarto a Roma e oggi gestisce un negozio di abbigliamento. “I nostri antenati – ci dice – hanno fatto in modo che la nostra vita fosse più facile spianandoci la strada e mettendosi alla prova. Questa statua vuole rappresentare il loro viaggio, il loro sacrificio e la loro decisione sofferta di lasciare la terra natia per poter dare migliori opportunità economiche alle loro famiglie”.

Burlington, marzo 2007

Carol Comegno

 

Fonte: C. Comegno, In America… sognando Capracotta in “Voria”, Anno I Numero 0, Aprile 2007