Gli operai capracottesi della SNIA Viscosa di Roma (Parte I)

Il quadrante est di Roma, che racchiude i quartieri Prenestino e Casilino (approdo storico dell’emigrazione capracottese nella capitale), ha visto nascere tra la fine dell’Ottocento e gli albori del fascismo, molti stabilimenti industriali di medie e grandi dimensioni; tra gli altri spiccano il Pastificio Pantanella, l’Istituto Farmaceutico Serono (prima ditta farmaceutica ad insediarsi nella capitale) e la SNIA VISCOSA.

Quest’ultima che nasce come CISA VISCOSA, avrebbe potuto festeggiare il secolo di vita (entrò in funzione il 5 settembre 1923), se non avesse cessato l’attività nel 1954.

Costruita sulla Via Prenestina, all’altezza di Largo Preneste, è stata tra le più grandi fabbriche italiane, produceva la seta artificiale (rayon) e vi lavoravano circa 2500 maestranze (oltre il 70% erano operaie): durante il secondo conflitto mondiale qui venivano prodotte uniformi militari in centinaia di migliaia di esemplari ed inviate al fronte e dalla fabbrica uscivano anche i paracadute.

Il processo di produzione della seta artificiale prevedeva l’uso di una sostanza altamente tossica, il “solfuro di carbonio”: una volta inalato, causava disturbi neurologici e non furono pochi tra operai ed operaie a finire al Santa Maria della Pietà, l’ospedale psichiatrico romano attivo all’epoca.  

Alcuni studi risalenti alla seconda metà dell’Ottocento avevano già segnalato la nocività della sostanza: il “solfocarbonismo” è stata una delle prime malattie “tabellate” dall’INAIL e tale dicitura si iniziò ad adoperare a partire dagli anni quaranta del Novecento.   

L’Archivio dello stabilimento venne abbandonato dalla proprietà negli stessi locali ove era ubicato, fu recuperato nel 1995 da un gruppo di abitanti del quartiere, venne quindi costituita l’Associazione Culturale SNIA.

Nell’archivio sono presenti documenti dell’ufficio del personale, degli uffici tecnici  e vari registri: dalle sue carte sono stati presi spunti per approfondire la storia sociale e politica del quartiere e per studi sul lavoro operaio a Roma durante il fascismo e l’immediato dopoguerra.

La fabbrica finanziata con cospicui capitali statunitensi, fondata sul modello fordista, tendeva a regolamentare ogni momento di vita degli operai: venne istituito un nido per i neonati, c’era un asilo per i figli delle operaie, le Suore Salesiane di Madre Maria Mazzarello tenevano corsi di cucito, ricamo e attività domestiche, erano presenti due dormitori, uno maschile e l’altro femminile, una palestra ed uno spaccio alimentare.

Erano in funzione anche due cappelle per l’assistenza religiosa sia dei lavoratori, sia per gli abitanti della zona, in quanto la parrocchia più vicina era quella di S. Elena, all’inizio della Via Casilina.

Assistente spirituale della fabbrica, per alcuni anni, è stato Don Pietro Pappagallo, una tra le figure più luminose dell’antifascismo romano!

Oltre a svolgere la sua missione pastorale, non si risparmiò nel denunciare le condizioni di sfruttamento degli operai e le disparità di trattamento riservate ai meridionali (era nato a Terlizzi, Bari).

Fu arrestato e condotto in Via Tasso, perché accusato di fabbricare documenti e tessere annonarie false che distribuiva a chiunque rischiasse di finire nelle mani dei nazifascisti (ebrei, militari, oppositori politici e gente comune). 

Roberto Rossellini ispirò alla sua figura e a quella di Don Giuseppe Morosini per il personaggio di Don Pietro, il parroco di “Roma Città Aperta”, interpretato da Aldo Fabrizi.

Don Pietro Pappagallo sarà l’unico sacerdote tra i 335 martiri dell’eccidio delle Fosse Ardeatine  e non si risparmiò neanche in questa circostanza: benedicendo ed assolvendo i suoi compagni di martirio fino a che non toccò a lui morire con un colpo di pistola dietro la nuca.

La SNIA è stata una fabbrica che ha avuto tra le sue maestranze anche alcuni capracottesi (ecco il perché di questo articolo!): ne parleremo ovviamente in un prossimo articolo!

Paolo Trotta

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