I “Miserabili” e gli “Incurabili”

Io con i miei nonni materni: Michelina Sozio ed Ercole Venditti

«Scusate, dove stanno i Miserabili?».

«I Miserabili? Forse gli Incurabili…».

«Sì, gli Incurabili».

«Comunque, avete detto proprio bene: qui siamo tutti miserabili…».

Una mattina di fine estate del 1978, mio nonno materno Ercole Venditti andò a Napoli a richiedere una copia del mio certificato di nascita presso l’ospedale “Incurabili”. Serviva per la mia iscrizione alla scuola elementare. Così, prese la Circumvesuviana a Ercolano, scese a Napoli, imboccò a piedi il “Rettifilo” e arrivò su via Duomo. Qui, disorientato dall’intricato dedalo di viuzze risalenti all’epoca magnogreca, si avvicinò a un signore e pose l’inesorabile domanda scambiando involontariamente il nome dello storico complesso sanitario partenopeo, fondato nel 1522 dalla nobildonna aragonese Maria Requenses Lonc per assistere pietosamente quei malati di patologie all’epoca “incurabili” e quindi ai margini della società, con quello del celebre romanzo di Victor Hugo.

La cosa oggi può anche far sorridere ma, negli anni Settanta, la linea di demarcazione tra “incurabili” e “miserabili” era davvero molto labile all’ombra del Vesuvio. Napoli era la città con il tasso di mortalità infantile più alto d’Europa e la presenza endemica di malattie gastrointestinali come il tifo e l’epatite virale, con uno spazio urbano considerato tra i più sovraffollati del mondo e, secondo il settimanale americano “Time”, anche il più sporco del continente e con gli strati più poveri della società cittadina che sopravvivevano alla giornata con piccoli espedienti.

A questo scenario già così desolante, nella tarda primavera del 1973, si aggiunsero le prime avvisaglie di un’epidemia di colera, l’ultima a colpire un Paese occidentale, che esplose in tutta la sua virulenza alla fine del mese di agosto causando complessivamente ventiquattro morti. Ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, mia madre Maria Rosaria ricorda piuttosto chiaramente che, dal suo lettino del reparto di ostetricia dell’ospedale “Incurabili” dove sono nato il 9 maggio di quell’anno, sentiva di continuo le sirene delle ambulanze che scaricavano malati al pronto soccorso temendo per la salute mia e quella sua.

Pochi giorni dopo l’inizio dell’emergenza, partì una grande operazione di profilassi che portò alla vaccinazione di circa un milione di napoletani in appena una settimana grazie anche all’utilizzo delle modernissime siringhe a pistola messe a disposizione dalla Sesta Flotta degli Stati Uniti d’America.

Io e i miei genitori, in quei giorni, eravamo tutti al sicuro nella casa dei miei nonni materni in via santa Maria di Loreto a Capracotta. A un certo punto, mio padre Matteo dovette rientrare a lavoro: ci pensò il medico condotto di Capracotta, Gervasio Evangelista, a procurargli il vaccino. Io e mia madre tornammo a Ercolano alla fine del mese di settembre quando l’epidemia di colera era finita.

Per la cronaca, mio nonno Ercole alla fine arrivò all’ospedale e si procurò il tanto agognato documento.

Francesco Di Rienzo