Briciole di solidarietà a Capracotta durante la guerra del 1943

Un’immagine di Capracotta dopo le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale

Come ho spesso ripetuto, mi basta una qualsiasi pur piccola  occasione per ripensare al periodo vissuto a Capracotta da bambino e da ragazzo; questa volta mi torna purtroppo in mente la guerra  della cui recrudescenza attuale, su vasta scala, siamo tutti attoniti testimoni: dal conflitto in atto tra Russia e Ucraina a quello tra Palestina e Israele e con molte altre aree di crisi  che giustificano la definizione di papa Francesco di “guerra mondiale a pezzi”: sembra davvero incredibile che tutto ciò accada anche dopo 2000 anni di cristianesimo!

Mi ha colto un po’ di sorpresa, in questi giorni, l’annuncio delle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario dalla distruzione  di Capracotta, sebbene esso coincida con il mio compleanno: sono nato, infatti, il 3 agosto 1943 e molto è stato scritto di quell’infelice stagione, a cominciare dalle appassionate memorie di mia madre Cesarina.

Così, senza la pretesa di aggiungere alcunché di inedito, il mio pensiero di oggi si rivolge ad alcuni aspetti minori del disagio estremo cui la popolazione andò incontro per quella calamità: decisa dai tedeschi, per pura rappresaglia perché incalzati dalle truppe alleate e mi riferisco soprattutto al gravissimo problema degli approvvigionamenti, in particolare di quelli alimentari.

Molti si erano illusi che la linea del fronte non raggiungesse, né tanto meno che si fermasse a Capracotta, al punto che diversi concittadini già residenti altrove, avevano fatto di tutto per rientrarvi: cadendo perciò, come si suol dire… “dalla padella nella brace”; molte, tuttavia, erano già state le avvisaglie e mi piace ricordare un singolare colloquio di mia nonna materna Guglielma, che proveniva dall’Emilia-Romagna,  con una signora non originaria del nostro paese; si chiamava Sandrina, appartenente a una famiglia molto disagiata ed a cui veniva di solito affidato qualche lavoro domestico in cambio di una modesta retribuzione e un po’ di cibo.

Un giorno la radio, di cui allora disponeva solo il Municipio, diffuse la notizia di una imminente estensione del conflitto e la nonna, quanto mai angosciata, ne informò la povera Sandrina cui aveva appena offerto la prima colazione; e la sua incredibile, sofferta osservazione, restando del tutto imperturbabile, fu la seguente:

“Se arriverà anche qui la guerra, peccato per coloro che sono abituati a mangiare tre volte  al giorno, perché noi non soffriremo più di tanto!”.

Di lì a poco, infatti, divenne drammatico per tutti  approvvigionarsi del cibo,  specie dopo aver dato fondo alle poche provviste, per lo più di grano e di patate sottratte in qualche modo alle ripetute razzie dei tedeschi; esse riguardarono in modo particolare il bestiame fino a che in paese non fu possibile reperire neppure un po’ di latte.

A tale riguardo ho appreso con raccapriccio che dalla stalla della nostra casa erano state portate via diverse pecore appartenenti al padre di mio zio Antonio, il pastore Mario Carnevale ed i loro agnellini sarebbero, naturalmente morti ad uno ad uno di fame; qualcuno decise perciò di macellarli e di offrire le loro carni a un gran numero di persone, quanto mai in difficoltà. Furono anzi due eroici ragazzi che io in seguito ho conosciuto e che ricordo molto bene, Arcangelo e Felice, ad assumersi il compito di scuoiarli; quest’ultimo anzi, che chiamava affettuosamente mia madre “zia Cesarina”, arrivò a confidarle che non ce la faceva più in quel tremendo lavoro e le confessò quasi piangente: “Mi fanno male le mani!”, ma proseguì con molta determinazione fino a concluderlo.

Passando ora ad un altro argomento, mi piace rinnovare la mia gratitudine nei confronti dei  soldati polacchi, forse gli unici di buon cuore tra le diverse etnie che si avvicendarono nel nostro martoriato paese anche e soprattutto dopo che la maggior parte dei suoi abitanti furono costretti a rifugiarsi temporaneamente altrove; alla mia famiglia, infatti, era stato imposto di restare per l’attività professionale di mia madre ritenuta indispensabile come ostetrica condotta, insieme a un centinaio di civili.

Così furono tanti gli episodi di piccola-grande solidarietà umana di quegli uomini, alcuni dei quali si commuovevano fino alle lacrime osservando me così piccolo: erano divenuti padri durante il periodo bellico e, purtroppo, non avevano ancora potuto abbracciare il loro; ad esempio, quasi in una gara  di generosità, si privavano sistematicamente della razione di “latte evaporato o condensato” per donarla a me.

Di quest’ultimo le nuove generazioni non hanno forse mai sentito parlare ma, in tutta sincerità, ho avuto anch’io necessità di documentarmi sulla tipologia di quel prodotto ormai abbastanza desueto che, su “Wikipedia”, viene descritto così:

“Il latte evaporato, noto in alcuni paesi come latte condensato non zuccherato, è un prodotto lattiero-caseario in scatola da conservare a temperatura ambiente e composto da latte fresco che è stato privato di circa il 60% di acqua. Si differenzia dal latte condensato zuccherato che invece contiene il saccarosio. Il latte condensato zuccherato richiede una lavorazione meno complessa in quanto lo zucchero aggiunto inibisce la crescita batterica. I tempi di conservazione del latte evaporato sono molto lunghi e ciò lo rese molto popolare prima della diffusione della refrigerazione come sostituto sicuro e affidabile del latte fresco deperibile, in quanto poteva essere spedito facilmente in luoghi privi dei mezzi per produrlo o conservarlo in sicurezza”.

Per giudizio unanime di tutta la famiglia, è stata quella appena descritta la carta vincente della mia faticosa battaglia per la sopravvivenza, ma è pur vero che non mancarono segni di estrema riconoscenza di ritorno da parte della nostra popolazione; era davvero emozionante sentir raccontare dalla nonna che alcuni di quei soldati le si erano affezionati a tal punto da chiamarla…”mamma” pronunciando una delle poche parole in italiano che avevano imparato a conoscere. Facendo funzionare infatti una vecchia macchina da cucire “SINGER”, tuttora tra i nostri cimeli, lei riusciva persino a sostituire il collo usurato delle loro camicie e fu grande la sua gioia allorquando, una volta, la ricompensarono con un grosso barattolo di latta dal contenuto prezioso anche per gli adulti; si trattava di ottima “margarina vegetale” che poteva essere usata come condimento.

Si andava così avviando alla conclusione il periodo peggiore di quell’inverno di guerra in cui molti avevano letteralmente sofferto la fame, in aggiunta ai tanti altri stenti; e anche per me iniziò finalmente una stagione migliore, di grande ottimismo in cui, ancora una volta beneficiando della solidarietà altrui, ebbi modo di utilizzare per le mie “pappine” diversi chilogrammi di ottimo miele: che generosi benefattori della campagna avevano praticamente regalato a mio padre Ottaviano.

È per tutto ciò che la mamma, ormai più fiduciosa nel mio futuro e raccontando della guerra, ebbe modo di scrivere con simpatica ironia:

“il mio bambino crebbe un po’ gracilino, ma non morì come avevo sempre  temuto”;

aggiungendo infine una frase di grande speranza e che, a mio giudizio, rende moltissimo onore a Capracotta e alla sua storia:

    “così, grazie all’alacre operosità dei suoi cittadini, in breve tempo il caro paese, che era stato ridotto a un cumulo di macerie, tornò  ad essere più bello e ridente di prima”.

Aldo Trotta