La dignitosa figura dello spazzino a Capracotta

La Rufa di Ciccton. Foto: Sebastiano Conti (2010)

Come ho avuto modo di dire più volte, sono diversi e di diversa ispirazione i racconti dedicati al ricordo di personaggi del passato a Capracotta: quando l’ambiente fisico e socio-culturale erano assai diversi da quelli attuali e soprattutto prima che lo spopolamento degli ultimi decenni incidesse così pesantemente.  

È comprensibile che il pensiero di molti sia stato rivolto a persone che, in maggioranza, svolgevano le attività più tradizionali: come quella dei pastori o dei carbonai oppure, ad esempio, quella dei sarti, falegnami, calzolai o muratori; mi risulta invece che, sia pure involontariamente, siano stati un po’ trascurati gli “spazzini” che adesso vengono chiamati “netturbini” o, ancor più modernamente, “operatori ecologici”.

Di questi ultimi e della loro attività è davvero molto lusinghiera una definizione che non conoscevo, attribuita a Martin Luther King:

“Un uomo chiamato a fare lo spazzino dovrebbe spazzare le strade così come Michelangelo dipingeva, o Beethoven componeva o Shakespeare scriveva; egli dovrebbe spazzare le strade così bene al punto che tutti gli ospiti del cielo e della terra si fermerebbero per dire che qui ha vissuto un grande spazzino che faceva bene il suo lavoro”.

Come in altre occasioni è stata la lettura a fornirmi lo spunto per le riflessioni odierne; mi ha infatti colpito moltissimo, sul “Corriere della Sera” del 26 Febbraio u.s., la citazione del professor Alessandro D’Avenia di un libro di Michel Simonet intitolato “Lo Spazzino e la Rosa”.

Il suo protagonista: “ogni mattina, all’alba, da trent’anni, mette una rosa fresca sul suo carretto come una bandiera: è felice di rendere bella la sua città, portare a casa ciò che serve alla famiglia e far vivere meglio i suoi concittadini.Trova il bello anche in mezzo alla sporcizia, fosse anche solo la strada pulita dopo il suo passaggio. Il suo diario di strada fa vedere come ciò che conta nella vita non è tanto il lavoro che si fa, ma perché e per chi lo si fa. Così la sporcizia diventa occasione di quotidiane scoperte e relazioni. Per Simonet la strada è il luogo in cui far accadere la speranza: fatto con e per amore, il suo lavoro diventa ricco di possibilità inattese (anche diventare scrittore) e non una prigione da cui fuggire”.

È comprensibile che tutto ciò lo rendesse un “roadman”, un “uomo della strada”, assolutamente speciale per la vocazione di rendere la città presentabile e di averne cura permettendo, così, ai suoi concittadini di godere delle migliori condizioni possibili; ancor più idilliaca la trama del recentissimo volume di Andrea Biscaro intitolato “Lo Spazzino” di cui riporto una breve sintesi:

“Sasà è uno spazzino che pulisce le strade di Friburgo, la sua piccola città. È un uomo lungo e secco, e veste sempre di scuro. Un vero professionista della pulizia! Dove passa Sasà non rimane nemmeno una briciola, nemmeno una scaglia di sporco. Ogni giorno tira a lucido le sue amate strade, accompagnato soltanto dal suo allegro fischiettare e dal fruscio della sua scopa di saggina. Sasà ne ha viste di cotte e di crude per le strade della sua città. Non immaginate neanche cosa possa aver visto un uomo che lavora spesso, anche di notte: le cose più strane e bizzarre!

Tornando ora agli amici spazzini che ho conosciuto da ragazzo a Capracotta, mi commuove il pensiero delle avverse condizioni climatiche in cui erano spesso costretti a operare, specie con il modestissimo equipaggiamento di cui disponevano sia per il vestiario che per l’attrezzatura di lavoro; era persino consuetudine che si costruissero da soli le robustissime “scope” dopo aver raccolto, in campagna, i fasci di vimini necessari e rammento che diverse volte sono stato testimone della loro incredibile abilità.

Potrebbe apparire inopportuno farne cenno, ma allora in paese erano indispensabili molti animali domestici che non contribuivano certo a mantenerne pulite le strade e le piazze; c’è una cosa, tuttavia, che mi preme di raccontare e che merita, più di tutte, molta riconoscenza. Con il lunghissimo inverno di Capracotta, tutto rimaneva sommerso dalla neve sempre abbondante e si potrebbe erroneamente pensare che questa stagione fosse di tutto riposo per gli spazzini: nulla di più inesatto, sia pure essendo impossibile sgomberare, e tanto meno pulire, le strade interne del paese; infatti, grazie al loro operato, si poteva camminare su sentieri appositamente tracciati e battuti nella neve altissima. Si riusciva spesso a stringere la mano di persone affacciate alle finestre del primo piano, nelle case, ma restava grande la difficoltà di utilizzare le ripide scalinate, le nostre “rufe”,a cominciare da quella che scendeva dalla Chiesa Madre; era necessario, perciò, che gli spazzini modellassero dei rudimentali quanto provvisori gradini, ma non tardava ad affiorare un altro e più grande problema dovuto al gelo: la loro estrema levigatezza quasi paragonabile a quella di una moderna pista di bob, e con essa il grave rischio di rovinose cadute per tutti.

Così i nostri “angeli custodi” avevano ideato un ingegnoso sistema che, se ben ricordo con una piccola zappa, rendeva dentellato il bordo dei gradini quasi fossero dotati di moderne ed efficaci strisce antiscivolo. Mi risulta anzi che, a tale scopo, facessero spesso a gara tra di loro, come trasformandosi in veri e propri scultori del ghiaccio; tutt’altro scenario, davvero, rispetto agli odierni effetti del “riscaldamento globale!”.

A conclusione del mio racconto dedicato agli spazzini di Capracotta, di alcuni riaffiora in me anche un affettuoso ricordo visivo: Ambrogio (Santilli, detto ‘Mbroziɘ), Raffaele (Di Rienzo, detto Paielɘ), Domenico (Latino, detto Ming latinɘ), Giovanni (Latino, detto Giuanne latinɘ); di altri due che hanno svolto il loro servizio più di recente, Italo (Di Rienzo detto braciola) e Carmelo (Carnevale detto mottino), ho un ricordo più vago ma li ringrazio tutti di cuore, mentre mi torna in mente la frase scherzosa che ho utilizzato spesso in questo periodo. Ai diversi amici infatti, che mi elogiavano per il tentativo di lasciare testimonianza scritta di tanti ricordi, è suggestivo che io abbia sempre risposto testualmente:

“Nella …prossima vita, che io faccia “lo spazzino” o “lo scrittore”, l’importante è che io non sia di nuovo costretto a lasciare il mio paese”; senza rendermene conto, erano forse le parole migliori per rendere omaggio, ancora una volta, a questo dignitoso, umilissimo lavoro.

So bene che è un assurdo ma, nel mio piccolo, sarei felicissimo se anche di me un giorno, come nel libro di Simonet, si potesse raccontare che sono stato uno “spazzino-scrittore” vissuto a Capracotta.

Aldo Trotta