Un altro degli antichi mestieri a Capracotta: la lavandaia

Lavandaie capracottesi alla fonte del “Cummenisce” e al Verrino. Foto: Cav. Giovanni Paglione (1918)

In questi ultimi giorni, dopo un inverno ancor più mite del solito e risiedendo ora in una cittadina costiera, non mi aveva sorpreso la fioritura anticipata delle piante; stamani poi, attraversando il piccolo parco adiacente la mia abitazione, mi ha davvero colpito una vera e propria distesa di fiorellini sul prato che sembrava un tappeto variopinto e che mi ha fatto tornare in mente la stessa immagine di quando ero bambino: certamente assai più tardiva, come era normale che accadesse in un paese di alta montagna; a Capracotta, infatti, la primavera si faceva sempre attendere molto mentre ora non fa più notizia che siano già fioriti da tempo i “bucaneve”, graziosi fiorellini  che forse non meritano più questo bel nome.

Di pensiero in pensiero, ricordavo poi che in paese l’arrivo della bella stagione consentiva di dedicarsi più agevolmente al lavaggio della biancheria; era consuetudine che, soprattutto le lenzuola, venissero fatte asciugare stendendole direttamente sui prati più esposti al sole e, neanche a dirlo, ancora una volta erano le donne a provvedere: sia nelle famiglie che riuscivano ad autogestirsi sia, in quelle come la mia, costrette ad affidarsi a professioniste di questo antico mestiere: le “lavandaie” appunto. Si può dire che si trattava di un vero e proprio rito, quello appunto del “bucato”, una parola forse sconosciuta alle nuove generazioni e cioè ai nati dopo gli anni ‘50-’60; a maggior ragione poi, credo siano pochissimi i giovani di oggi, assuefatti alla pubblicità dei più diversi prodotti, a sapere che nel passato si utilizzava come detersivo la comunissima cenere ottenuta per combustione della legna da ardere. A Capracotta, come è comprensibile, se ne raccoglieva tanta perché in ogni casa c’era almeno un caminetto, ma diverse delle nostre vicine ne facevano richiesta a mia nonna e per molto tempo, da bambino, non ero riuscito a spiegarmene la ragione; mi hanno poi informato che la nostra cenere, ricavata dalla stufa, veniva considerata più pulita e pregiata e quindi più adatta allo scopo.  

Ma perché si adoperava la cenere come detersivo?

Di questa domanda ho ricevuto la risposta più tardi arrivando anche a sapere che il più importante principio attivo della cenere, la cosiddetta “liscìvia”, si ottiene mediante il passaggio di acqua bollente attraverso la cenere opportunamente filtrata da un telo; e che tale procedura consente la dissoluzione dei suoi costituenti chimici e in particolare, per circa il 33%, dell’idrossido di sodio (soda caustica) o di potassio  che hanno un grande potere sgrassante e detergente.

Per quanto attiene la sequenza delle procedure necessarie per il bucato, è molto esauriente la descrizione che ne ha dato, già alcuni anni or sono, il caro amico Antonio D’Andrea a commento di antiche cartoline raccolte nel volume “Capracotta 1888-1937”; perciò, ai fini del mio argomento odierno, rinvio a quel pregevole contributo limitandomi ora ad un breve richiamo.  Che io ricordi, si poneva su un treppiede una grande vasca di legno forata in cui si collocavano i panni da lavare e, al di sotto di essa, una bacinella più piccola; si copriva poi la vasca con un telo, che veniva cosparso di cenere e, a questo punto, si gettava dell’acqua bollente al di sopra. In questo modo acqua calda e cenere penetravano nella biancheria, mentre l’acqua filtrava nella vasca sottostante; proprio da questa operazione, che si ripeteva finché l’acqua  di scolo non risultasse perfettamente pulita, derivava un altro diffuso termine dialettale per indicare il bucato: “la culata”, di origine spagnola (“colada”).

A questo punto, come per tanti altri momenti della nostra “vita di paese”, sarebbe emozionante disporre di un filmato che, purtroppo, non è disponibile; ricorro, perciò, alla mia memoria visiva o, per meglio dire, olfattiva dei periodi in cui il clima consentiva di fare il bucato all’aperto, all’esterno cioè della nostra casa. A me piaceva moltissimo restare affacciato alla finestra, quasi inebriandomi dei vapori che, senza alcun additivo, si sprigionavano dalle vasche di lavaggio e che si diffondevano a distanza fino a profumare l’intero quartiere; ora il mio pensiero si rivolge piuttosto alle fasi complementari del vero e proprio bucato, quello del lavaggio preliminare e del risciacquo. Esse si svolgevano nei fontanili del paese o, assai più spesso, nei pressi di corsi d’acqua: per esempio, nella famosa località denominata il “Vallone”, limitrofa alla fonte chiamata “Cummenisce”, o di sorgenti come quella del fiume “Verrino” da cui tuttora dipende l’approvvigionamento idrico del paese.

A tale proposito mi piace riproporre la storia incredibile che mi aveva raccontato mia madre, per tanti anni ostetrica a Capracotta; mi narrava di una lavandaia che, pur essendo a termine di gravidanza, aveva raggiunto la località del “Verrino” trovandosi poi, sia pure eccezionalmente, del tutto sola. Sopraggiunte improvvisamente le doglie del parto, dando prova di grande coraggio, aveva dato alla luce una splendida bimba riuscendo persino a tagliare il suo cordone ombelicale con una pietra levigata del fiume; non aveva poi esitato, dopo aver nascosto alla meglio la sua biancheria, a tornare in paese trasportando la neonata sulla testa, nella cestina di vimini adattata a culletta: sempre e solo proteggendosi con la cosiddetta “spara”, un tradizionale cercine di stoffa per ammortizzare carichi di qualsiasi genere.

Quando Dio volle, nei pressi dell’abitato incontrò finalmente una persona che, notando il suo diverso modo di incedere, le chiese cosa portasse di prezioso; e lei, senza scomporsi più di tanto, rispose: “la citra” che in dialetto significa appunto “la bambina”.

A questo punto, pur escludendo situazioni così estreme, spero si possa avere un’idea di quanto fosse impegnativo e faticoso, in passato, il lavoro delle lavandaie; senza contare il sacrificio di tenere immerse a lungo le mani nell’acqua, gelida anche d’estate a Capracotta. Occorreva un vero prodigio di forza e, al tempo stesso, di equilibrio che merita di essere onorato e ricordato: insieme ai diversi altri, tradizionali mestieri.    Concludendo perciò, non posso che rivolgere un pensiero di immensa gratitudine a quelle eroiche persone che mi sembra anzi di rivedere in questo momento: Ida, Bambina e… le altre; dalla loro espressione, intente a strofinare i panni sulla * “valchèra”, traspare tanta serenità e, ancora una volta, è grande la mia commozione.

Aldo Trotta

* la “valchèra” è una tavola di legno dentata per lavare i panni a mano

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