La primavera, uno specchio dei miei pensieri

Primavera a Capracotta. Foto: Lorena Iaciancio (Aprile 2024)

Nella mia memoria resterà incancellabile il ricordo del grave evento sismico verificatosi all’Aquila il 6 aprile di 15 anni or sono: che comunque, grazie a Dio, non aveva comportato alcun danno fisico a me e ai componenti della mia famiglia; esso tuttavia, solo per caso coincidente con la cessazione della mia attività professionale, è parso dare l’avvio a una stagione di grande sconforto per me.  

Nel 2014 infatti, per tutta una serie di motivi, fui costretto a lasciare quella città per trasferirmi stabilmente con la mia famiglia sulla costa adriatica, a Montesilvano, in cui abitava già mia figlia maggiore; era il Lunedì Santo del 2009 quando ci fu quel terremoto, in una tragica notte illuminata dal plenilunio di primavera e si può immaginare lo spavento di tutti e, da parte mia, lo sforzo di aiutare mia madre e mio fratello disabili ad uscire di casa.

Fu davvero angoscioso osservare da lontano il sinistro chiarore provocato dalla polvere rossastra delle macerie che si sollevava dalla città e così  oggi mi è tornato in mente un concerto tenuto all’Aquila nel decennale da quel terribile evento dal maestro Nicola Piovani; denominato “Sinfonia delle Stagioni”, aveva lo scopo di esortarci simbolicamente a restare saldi nella speranza e a credere che, nonostante le perdite umane e la devastazione, neppure il terremoto sarebbe riuscito a spegnere l’anelito di rinascita: come davvero, sia pure lentamente, è accaduto.  

Siamo anche ora in primavera, un periodo che da sempre sottolinea il risveglio della natura e di tutte le creature dopo il “letargo invernale” ma che io non ho mai amato particolarmente; sono stato sempre, infatti, molto insofferente del clima più caldo e direi che adesso, tanto più abitando in una zona costiera, l’inizio della buona stagione me ne fa presagire il disagio.

Mi impensierisce soprattutto il timore che possa tornare la canicola estiva degli ultimi anni essendo certo per di più che, se pure vivessi altri 50 anni, non riuscirei ad abituarmi al mare o alla spiaggia; ciò nonostante mi rendo conto che è un assurdo, anche per un montanaro come me, restare insensibile o, ancor peggio, refrattario al fascino della primavera e dei suoi colori.

Mi sono sorpreso infatti, già alcune settimane fa, ad ammirare la fioritura in rosa di alcuni alberi e mi è tornata in mente, ci avrei scommesso, la primavera vissuta da ragazzo a Capracotta: certamente non così precoce, ma non meno gioiosa e variopinta; per la cronaca, proprio in questi giorni ho avuto in mano una foto che ritraeva nei boschi di montagna, oltre un mese fa, la meravigliosa fioritura dei primi “bucaneve”.

Essi, come ho già avuto occasione di dire, non sembrerebbero più meritare questo splendido appellativo che si ritrova anche nel loro nome scientifico, “Galanthus Nivalis”; stiamo forse, purtroppo, restando orfani della neve ma chi avrebbe pensato, qualche decennio fa, al fenomeno del “riscaldamento globale”?

La mia mente è comunque tornata con grande trasporto alle primavere di tanti anni or sono quando, in paese, alla fioritura dei bucaneve faceva seguito quella delle primule e delle violette; sembrava che venisse disteso un tappeto variopinto su tutti i prati e noi bambini facevamo a gara per raccoglierne dei mazzetti da regalare alla mamma o magari, alla maestra, a scuola; era talmente intenso il loro profumo, da permeare tutti gli ambienti.  

A proposito di scuola, è proprio sui suoi banchi che ho imparato a conoscere, spesso anche a memoria, le poesie di Ada Negri, famosa scrittrice del secolo scorso che fu persino candidata al premio Oscar per la letteratura; ignoravo tuttavia, almeno fino ad ora, che tra i suoi diversi componimenti dedicati alla Primavera, ce ne fosse anche uno intitolato “Prato d’Aprile”.

Esso recita così:

“C’era un prato: con folte erbe, frammiste
a bianchi fiori, e gialli, e violetti;
e fra esse un brusio di mille piccole
vite felici; e se sull’erbe e i fiori
spirava il vento, con piegar di steli
tutto il prato nel sol trascolorava.

E volavan farfalle, uguali a petali
sciolti dai gambi; e si perdean rapidi
i miei pensieri in quell’aerea danza
ove l’ala era il fiore e il fiore l’ala.

Ma dov’era quel prato? Non so più.
E quel vento soave, che scendea
sull’erbe folte, a renderle

    curve e beate, e me con loro, in quale
tempo io dunque l’intesi? Non so più.

Fu un sogno… forse. E che mai altro, o vita,
chiedere a te dovrei? Vita perduta,
nella tua verità non sei che un sogno.

Neanche a dirlo, ho trovato questa poesia particolarmente vicina al mio stato d’animo attuale e soprattutto alla mia insopprimibile malinconia; perciò non mi ha stupito uno dei tanti commenti che sottolinea come i verbi utilizzati siano tutti coniugati al passato: ad esempio “dov’era quel prato?”, proprio come se non si trattasse di una visione reale ma di una raffigurazione simbolica, di un semplice ricordo o forse di un sogno.

Così, nello scrupolo di aver colpevolmente trascurato il messaggio di quella “sinfonia”,è fondato il timore che io possa restare del tutto insensibile alla dolcezza e ai colori della bella stagione e mi auguro davvero che ciò non accada; finirei, altrimenti, per calpestare una vera “allegoria della vita”: la primavera appunto, che un poeta come Francesco Petrarca definiva “candida e vermiglia” e che ha ispirato, nei secoli, tanti artisti.

Aldo Trotta