Il Teatro quotidiano di Mammà della Rufa. La lunga lingua di una donna di Capracotta

Mammà della Rufa – Peppina Borrelli

Nel 2006 ho scritto l’articolo “Il Teatro delle Rufe” per presentarlo al mondo. L’elaborazione di questo tipo di fare/essere Teatro era nata, passo dopo passo, durante i primi tre anni di attività della scuola eco-conviviale “vivere con cura” di Capracotta, nel corso dei quali erano passate/i narratrici/tori e attrici che tenevano incontri e spettacoli di alto e vivace spessore culturale e esistenziale; fruibili da tutte/i, sia perché gratuiti o a offerta e sia perché tenuti all’aperto, nelle piazzette o tra le scalinate del paese. Questo chiaramente nei mesi di luglio e agosto per il clima caldo-mite. Ma dopo ogni recita di autrici/tori, classici o alternativi che fossero, avvertivo una contraddizione che così mi si presentava: era considerato Teatro quello delle rappresentazioni di più o meno grandi narrazioni di artiste/i il più delle volte intellettuali, benestanti e vissuti in città. Invece soprattutto mia madre, Peppina, (ma anche zia Elena, la sorella e altre parenti nate/i a Capracotta, in montagna, nei primi decenni del 1900) fin dalla più tenera età mi avevano raccontato così tanti e divertenti e intriganti episodi di vita vissuti a Capracotta, soprattutto fino agli inizi degli anni cinquanta, che ogni volta mi sembravano sia fiabe -confondendo realtà e fantasia- sia di essere spettatore di una sorta di teatro in cui le attrici/tori erano semplicemente le abitanti che con i loro vissuti così ricchi di accadimenti e reazioni emotive e razionali mi suscitavano emozioni e riflessioni vivissime. E mi chiedevo e mi dicevo: anche questo è Teatro, anzi il primo Teatro! Così si potrebbe e dovrebbe sempre vivere, semmai togliendo o evitando le situazioni violente.

Da questo percorso nasceva quindi la proposta del “Teatro delle Rufe” che trascrivo fedelmente così come avevo fatto otto anni fa. Solo l’anno dopo abbiamo fatto uno “spettacolo” ma gli avvenimenti personali che mi sono accaduti, hanno fatto sì che solo oggi, in questi mesi di fine 2014 lo rilancio grazie alla collaborazione con un’amica, Marcella Rossi il cui percorso esistenziale l’ha portata alle mie stesse conclusioni. In questi otto anni ho continuato le ricerche e riflessioni su Antonietta Borrelli, l’ispiratrice, insieme a mia madre, di questa proposta; e così ho scoperto altri episodi illuminanti che desidero condividere. Perciò al termine dello scritto farò delle aggiunte. A dopo

Il teatro delle rufe
di Antonio D’Andrea
Cos’è il teatro delle rufe? Qual è la sua storia? Per rispondere a queste domande desidero trascrivere quanto mia madre, Peppina, mi ha raccontato nel corso degli anni. Una delle cose che ha sempre messo in evidenza è che la vita a Capracotta, paese di montagna. A 1421mt, soprattutto fino alla seconda guerra mondiale, era quasi come un partecipare a un teatro permanente sia per gli accadimenti piccoli e grandi sia per “gli attori e attrici”, in questo caso le/gli abitanti di Capracotta. Migliaia e migliaia sono i fatti, e relativi commenti, che mi ha raccontato di accadimenti che avvenivano nella vita quotidiana, così come i profili dei singoli abitanti, piccoli, giovani o anziani. Chi vive in montagna, soprattutto allora, prima dell’avvento della società dei consumi, era costretto ad ingegnarsi in mille modi per sopravvivere e cercarlo di fare nel modo più dignitoso e questo portava ad un’arguzia e attenzione al particolare notevole e quindi facilmente ognuna/o era e diventava una persona eccentrica, particolare. Purtroppo c’è l’immagine che la vita di un paese di montagna sia un qualcosa di monotono e basso rispetto alla vita di città con i suoi mille stimoli da cui facilmente nascono geni e grandi uomini e grandi soddisfazioni della vita. In realtà, soprattutto tra le donne di montagna c’è una ricchezza esistenziale e umana notevoli, non è un caso, giusto per fare un esempio, che le apparizioni mariane o comunque di fenomeni cosiddetti paranormali avvengano a donne, il più delle volte bambine, proprio in montagna. Peppina mi ha raccontato in particolare di certe famiglie, allora quasi tutte allargate in cui andare a trovare, per qualsiasi motivo, era proprio come andare a teatro per le scene e le battute a cui si assisteva. Ma anche presso la pensione di sua madre, Mammaletta, con al piano di sotto il laboratorio di sartoria di Papà Loreto era un continuo di atti unici fatti di micro-macro avvenimenti con immancabile corollario di botta e risposte, riflessioni particolari, esclamazioni, mimica e movimenti dei corpi con sviluppi successivi. Una vera e propria telenovela, e secondo me non è un caso che per tanti anni le telenovelas hanno tenuto banco in tv proprio perché in ogni famiglia e ogni paese accadeva di tutto e di più e i sentimenti e le emozioni erano esaltati e messi a dura prova nel bene e nel male. Detto questo arrivo a parlare della figura chiave che mi ha ispirato verso la proposta del teatro delle rufe. Una zia paterna di mia madre era Antonietta Borrelli, chiamata Mammà della Rufa. Il termine Mammà o simili non erano solo o soprattutto dovuti all’anzianità, ma soprattutto all’autorevolezza che una donna era riuscita a “conquistarsi” per uno o più meriti. La rufa in dialetto capracottese è la gradinata che collega le zone alte con quelle poste più in basso. E la rufa principale, a Capracotta, è quella che collega la piazza, “la Chiazza”, ove c’è il municipio, con la “via nuova” chiamata così perché asfaltata solo dopo la seconda guerra mondiale. Mammà della rufa, abitava una delle case, purtroppo non c’è più dopo la distruzione avvenuta con la seconda guerra mondiale, poste ai lati di questa gradinata principale. e mi dico che chiamarla “Mammà della rufa” era un po’ come considerarla “La Signora della gradinata”, un po’ come Lucia di Milione era considerata “la signora dei boschi” per la sua attività di raccoglitrice. E perché era arrivata ad essere la Mammà-Signora di quella gradinata? A detta di Peppina era di una arguzia e simpatia eccezionale. Tanto che la consideravano un’attrice “mancata”. Con la verve, dice sempre mia madre, di Tino Scotti, un attore che negli anni ’60 faceva la pubblicità per Falqui, un lassativo. Peppina, fin da piccola, frequentava questa zia paterna soprattutto perché andava con lei al torrente Verrino a fare il bucato. Fu lei a iniziarla in questa operazione molto impegnativa e faticosa ma anche ricca di potenzialità magiche. E sì perché un conto è far fare il bucato alla lavatrice oppure andare in un lavatoio, come è successo fino agli anni ’60, già più artificiale; un altro conto è andare a fare il bucato presso la sorgente di un ruscello tra piante e massi dopo oltre mezz’ora di cammino su un sentiero tortuoso (tanto che a Capracotta c’è l’espressione: “Come la via del Verrino” per indicare un qualcosa di veramente tortuoso) e scosceso. Inoltre Verrino (deriva da un conte della zona che si chiamava all’incirca Verrinus) sta a indicare il cucciolo del Maiale, animale sacro nell’antichità, soprattutto nel neolitico matriarcale, perché simboleggiava la potenza delle donne soprattutto incarnava il senso della ciclicità della vita, in particolare il ciclo mestruale, poi diventato immondo insieme al maiale e al serpente. Quindi abbiamo un torrente che sgorga acqua pura tra massi e alberi dove le donne vanno a fare il bucato, interagendo con l’elemento per eccellenza che simboleggia le donne e la vita: l’acqua. Fare il bucato, con tutte le sue operazioni: ammollo, insaponatura, risciacquo, strizzatura, asciugatura su sassi cantando e parlando è un’attività che potenzia la forza morale e vitale di chi la compie, soprattutto in gruppo. Secondo la studiosa Jutta Voss le donne hanno un campo bio psichico, differente e più completo rispetto ai maschi, che viene potenziato se le donne stanno insieme, senza maschi, e se fanno delle attività con la natura selvaggia, in questo caso il bucato, così come potrebbe essere la raccolta della legna, per esempio. Mammà della Rufa faceva il bucato per sé e le sue tre figlie, Lucia, Rosa e Michelina e anche a pagamento. Quindi era anche un lavoro retribuito. Mia madre mi racconta che in tasca portava sempre dei pezzi di sapone e per questa sua attività di lavandaia “mercenaria” non era ben vista tanto che alcuni parenti del futuro marito di Peppina, Marino, non volevano che la sposasse perché imparentata con una donna quasi strega… L’altra caratteristica di Mammà della Rufa è che il marito, Filippo, era un pastore transumante. A detta di mia madre era un uomo buono come il pane, un buon pastore quindi. Solo che da metà ottobre a metà giugno transumava nelle Puglie e quindi non era in casa e anche nei mesi estivi doveva stare sul pascolo e faceva poco la vita di famiglia cioè viveva pochissimo sotto lo stesso tetto della moglie. Questa situazione avrà come conseguenza, più o meno presso tutte le famiglie dei pastori, che le donne, le mogli, faranno da reali capofamiglie e tenderanno a frequentare di più i propri alberi-parenti piuttosto che quelli del marito e soprattutto avranno molta più libertà, non dovendo rendere conto al marito di ogni scelta e quindi organizzando la propria vita sui propri ritmi e dedicandosi ai figli con maggior disponibilità. E avendo anche più tempo per sé. Per esempio Peppina cita un proverbio capracottese: “la chiacchiar è bella e cara p la mogl dr pcurar” e cioè che solo le mogli dei pastori hanno più tempo libero per chiacchierare (e oziare un po’). Per esempio Mammà non doveva far da mangiare per il marito, né lavargli i panni, né essere disponibile sessualmente se lei non voleva e così via. Questo tipo di amore è per molti versi simile a quello che era vissuto nelle antiche società matriarcali in cui gli amanti vivevano presso i rispettivi alberi materni con incontri più o meno saltuari. Questo tra parentesi ha il vantaggio di lasciare molta autonomia ai partner con il risultato di tenere sempre vivo l’amore che non scade in abitudine e sopraffazione. L’altra particolarità, come avevo accennato è che dall’unione di Antonietta e Filippo nasceranno tre figlie. E anche questo contribuirà a potenziare la forza e verve di Mammà della Rufa anche perché, purtroppo in quelle società il maschio era quello che doveva e voleva comandare e che succhiava le energie della madre. Un contesto tutto femminile creava una atmosfera più egualitaria tra madre e figlie. E ancora: Mammà della rufa era la sorella di Papà Loreto, il papà di Peppina. Ogni giorno, a detta di Peppina, dovevano vedersi per stare un po’ insieme, tanto si volevano bene e quindi la sartoria e pensione erano quotidianamente frequentate da madre e figlie. Mammà della rufa chiamava “r fruat” (il fratello) Loreto che a sua volta la chiamava “la sor”(la sorella), a conferma che avendo libertà lei preferiva stare con i suoi parenti piuttosto che quelli del marito. Sempre nelle antiche società matriarcali, il rapporto orizzontale principale tra i sessi non era dato dall’amore e quindi tra amanti ma tra sorelle e fratelli. Noto anche che la moglie di Papà Loreto, mia nonna, si chiamava Antonietta, proprio come Mammà della rufa. Peppina mi racconta che una mattina Mammà della rufa entrò molto turbata nel laboratorio di Papà Loreto e gli dice che ha fatto un brutto sogno: un cane rognoso le mordeva “r dton, dr pet” (il ditone del piede, l’alluce) e non lo mollava e lei provava un dolore fortissimo, insopportabile. Il giorno dopo arriverà il telegramma dell’America che annunciava la morte del loro fratello emigrato in America. Riassumendo: Mammà della rufa, sposa un pastore buono e mite che per forza di cose vive raramente in casa con cui ha un rapporto d’amore vivo (e il fatto che nascano sempre femmine, secondo alcuni/e ricercatrici, è un segno di positività del rapporto e di evoluzione). Questa situazione fa sì che lei diventa capofamiglia e s’inventa il lavoro di lavandaia, attività magica-conviviale femminile. Può frequentare a volontà il fratello, Papà Loreto inserito in una grande casa-pensione conviviale. Ha tre figlie femmine. Vive lungo una rufa che era un via vai di persone con cui ha tempo di chiacchierare quasi a volontà e stringere bei rapporti di vicinato e mutuo soccorso. Grazie a tutto questo diventa una donna grande affabulatrice, acuta, saggia, amorevole, simpaticissima, giocosa. Una teatrante. La commedia dell’arte, anzi l’arte della commedia, l’arte di relazionarsi e vivere senza dominare ma riconoscendo e valorizzando i mille accadimenti quotidiani soprattutto con le donne, i bambini/e, animali e natura selvatica, o quasi, come protagoniste. E il teatro delle rufe (e nell’antichità la scala-gradinata, vedi anche le piramidi, erano un simbolo di comunicazione tra il cielo e la terra, il basso e l’alto (sud e nord), gli inferi e la terra, il conscio e l’inconscio…) vuol essere un momento di incontro negli spazi posti tra le rufe ove sia raccontare i fatti e i saperi orali sia quelli attuali, in particolare di Capracotta, senza scadere nel pettegolezzo, sia parlare in dialetto/i, sia cantare e ancora: raccontare ninne nanne, scioglilingua, espressioni, intervallandole con presentazioni di libri oppure con canzoni di cantastorie “forestieri”. E tutto questo mentre i partecipanti possono fare mille piccole attività ecologiche, per esempio cucire e rammendare, riparare oggetti o pulirli all’aperto, preparare la cena e cuocerla con un bel fuoco acceso, possibilmente dentro un pentolone (r cttur) simbolo di trasformazione, oppure fare e ricevere massaggi leggeri e tanto altro. Sempre più a livello delle “grandi” città il teatro è diventato un qualcosa di alienante, secondo me. Sempre più c’è un apparato di impresari, dirigenti intellettuali che devono programmare e organizzare l’industria della rappresentazione-illusione che separa sempre più gli attori, minicasta particolare, dagli spettatori, passivi. Già Carla Lonzi negli anni ’70 denunciava il ruolo allucinatorio dell’attore professionista sia di teatro che del cinema. E sempre Carla Lonzi parlava che solo dalla sconfitta di questo teatro può nascere il vero dialogo e la vera relazione tra gli individui, in particolare con la donna come soggetto e non più come oggetto e con il vissuto e il quotidiano di ciascuna/o come valore immenso. D’altronde il teatro nasce in Grecia con l’avvento delle società guerriere in cui accanto alla violenza dovevano costruire e dare in pasto al popolo sia il divertimento bruto delle arene e delle olimpiadi (che mimavano le dinamiche della guerra) che quelle più raffinate degli spettacoli teatrali e culturali (Iliade e Odissea, per esempio). Ma in esse oltre ai contenuti di disprezzo e subalternità del mondo delle donne, del popolo e degli animali, era proprio necessario che venissero rappresentate in forma di spettacolo che cioè nascesse la categoria di spettatori-passivi che introiettino la visione del mondo e della vita della casta politica religiosa, militare e economica. Con le sue problematiche spacciate come universali e neutre. In particolare, ripeto con la visione della donna e dei suoi simboli come fonte di tutte le disgrazie. Per esempio l’Iliade racconta della distruzione di Troia città ancora legata a una simbologia femminile, troia è la scrofa, come dicevo simbolo della potenza femminile e della vita generosa e piacevole legata alla natura, alla convivialità e al dialogo. Troia sarà conquistata con il cavallo costruito dal genio di Ulisse (che nell’Odissea sconfiggerà Polifemo, un pastore dipinto come crudele e mostruoso) e quindi l’opera e l’impresa diventeranno gli obbiettivi della realizzazione umana maschile. Invece prima nel matriarcato erano le relazioni e la cura delle stesse, sia tra umani che con gli animali e le piante al centro della felicità e del ben vivere e quindi non c’era bisogno delle grandi narrazioni con chissà quali colpi di scena né c’era bisogno della bravura mostruosa di un attore professionista. Già la vita conviviale era ricca di accadimenti e motivo di riflessione e insegnamento e divertimento e umorismo. Che il vecchio sipario si abbassi e chiuda!!! E rientrino i corpi e le vite con i loro racconti e saperi, in prima persona!!!, insieme ad animali, piante e fenomeni della natura.
Un caro saluto, Antonio Lainate 2006.

Note aggiuntive
Il merito di tanta vitalità di Mammà della Rufa va anche al suo amore verso le galline e la capra che teneva nella piccola stalla posta nei pressi della sua casa. Le prime fornivano uova e la seconda il prezioso latte. Questo rapporto così quotidiano con gli animali, e questi in particolare, arricchivano l’animo e il cuore di chi li accudiva con amore e riconoscenza. Su galline e capre c’è stata una banalizzazione e disprezzo della cultura industrialista/urbana (anche quella “progressista”) e perbenista e futurista artificiale per cui gli animali sono stati considerati esseri inferiori, da trattare (e spesso maltrattare ) come schiavi e tollerati solo perché forniscono proteine, cibo o aiuto nel lavoro. In realtà gli animali, allo stato libero o semi-libero, in numero limitato, sono nostri amici complementari e spesso grandi maestri di vita con cui fare percorsi di crescita insieme. E l’arricchimento umano è assicurato, per tutte le età. Mia madre mi raccontava che, grazie alla frequentazione della casa di Mammà, spesso le galline entravano e covavano in cucina tanto che una volta, a circa 7/8 anni lei non trovando nessuno in casa e vedendo due uova sparse per la cucina, le raccolse e le venne il desiderio di cimentarsi a fare una frittata per la prima volta da sola. Ma per l’emozione, mentre metteva la padella sul fuoco del camino (altri elementi che spingono al meraviglioso e al favoloso con la profumata legna raccolta nel bosco, altro elemento che sprigiona forza vitale e armonia) si rovesciò sul pavimento e lei, spaventata e contrariata, scappò via…..da brava monella credendo di farla franca… Chiaramente Mammà scoprì l’autrice di cotanta ingenuità e non la punì, anzi ogni volta che in futuro si sarebbero incontrate avrebbero ricordato l’episodio con tanto di commenti e di risate.

L’altro elemento scatenante fantasia e vitalità era la vita stessa in montagna, a Capracotta, il luogo forse (ma senza il forse) più sacro del popolo osco, testimoniato dalla Tavola Osca. E il sapersi abbandonare e interagire con essa, tanto da trarne sostentamento, è sorgente straordinaria di vita.

Un altro e non ultimo elemento positivo che trovo in Mammà era che aveva una discepola e amica in mia madre che, a sua volta, l’aveva scelta e eletta a sua maestra non solo nella complessa e impegnativa operazione bucato al torrente ma anche maestra di vita che con i suoi mille “fatti”, raccontati con scavata arguzia, le trasmetteva i suoi saperi pratici e sapienziali soprattutto quando irrideva con bonarietà amara i comportamenti arroganti del mondo “perbene” dei benestanti, ipocriti ecc. ecc.

In quel contesto di grande economia domestica era fondamentale trasmettere l’eredità dei saperi, prima ancora che dei beni materiali. Ebbene per Mammà l’avere una bambina amorevole che l’accompagnava spesso al Verrino condividendo la fatica ma anche i mille aspetti della quotidianità della vita in montagna all’aria aperta era fonte di grande soddisfazione soprattutto attraverso quel chiacchiericcio continuo tipico delle donne e di quelle di montagna in particolare.

Questo rapporto così intenso con Mammà della Rufa continuò, anche se a scadenze meno ravvicinate, anche quando Peppina si sposò. Dopo qualche anno Antonietta, in seguito all’incendio di Capracotta nel 1943 (durante la seconda guerra mondiale) della sua casa, non più ricostruita nonostante le promesse dei politici, si trasferì a Roma a vivere presso una delle figlie. E così, anche se raramente, mia madre l’andava a trovare. Ma lei, lì a Roma era come un pesce fuori dall’acqua. Non riusciva a trovare nessun lavoro per non pesare sul bilancio della famiglia della figlia. E così alla fine si decise ad andare a chiedere l’elemosina davanti alla chiesa. A Capracotta era la Regina della Rufa con mille attività e relazioni e una vita più che decorosa, nella capitale non c’era posto per lei. Ma l’affetto e la riconoscenza di mia madre non fu scalfito. Quando un giorno venne a sapere che la sua maestra di vita e teatro della vita era morta, si precipitò nella casa dove aveva vissuto negli ultimi tempi. E quell’ultima notte volle dormire accanto a lei piangendo a calde lacrime e riempiendola di carezze e baci.

Ho scelto la storia di Mammà della Rufa perché secondo me sono state le tante donne come lei ad aver sempre tessuto quella ragnatela di rapporti conviviali con parenti, vicinato, forestieri, animali e natura in un circolo di mutuo soccorso e custodi di saperi sapienziali e nonviolenti nonostante la condizione delle donne fosse ai limiti della vivibilità per la violenta cultura patriarcale ufficiale, in particolare sotto il fascismo. Secondo quella mentalità le donne erano esseri inferiori e oggetti nelle mani di padri, prima, e mariti, poi. Per la Chiesa erano fonte di tutte le tentazioni, peccati e disgrazie. Ciò nonostante, lei non solo riuscì a costruirsi una rete di resistenza ma anche a dispiegare -anche se solo in parte- le potenzialità dell’enorme bagaglio vitale proprio delle donne .La sua prima figlia, zia Michelina, che è morta alcuni anni fa a ben 103 anni è stata l’erede della simpatia e teatralità della madre. Ogni volta che andavo a trovarla o la incontravo era non solo uno spasso ma una lezione fulminante di sapienza esistenziale impartita anche con un semplice movimento degli occhi o del viso o un’esclamazione o un gesto della mano o del corpo. E la sua casa, strana e affascinante nella sua semplicità la rispecchiava in pieno. Grazie di tutto.
Capracotta, ottobre 2014

Antonio D’Andrea