Avendolo confidato tante volte, mi vergogno di ripetere che basta uno spunto anche minimo per ricondurmi idealmente agli anni infantili e giovanili vissuti a Capracotta: con la conseguenza inevitabile di alimentare la mia nostalgia per quel caro paese; d’altro canto ho provato a modificare alcune delle categorie mentali nel senso di convincermi che il mio sentimento non si rivolge, in realtà, a quel luogo del cuore, ma a una stagione ormai conclusa e quindi irripetibile. Ma non posso certo dire di esserci riuscito perché ogni occasione è buona perché si risvegli il mio rimpianto: proprio come in questi giorni, del tutto imprevedibilmente, di fronte al dipinto del pittore Giuseppe Passarella intitolato “Il giardino della flora appenninica”, di cui gli “Amici di Capracotta” hanno diffuso l’immagine; esso, peraltro, mi aveva lasciato perplesso perché questa bellissima oasi naturale è collocata in realtà sul versante opposto del territorio comunale, alle falde di monte Campo. È bastato poi un attimo per capire che si trattava di una “licenza poetica” e quindi mi sono lasciato trasportare dalla “liricità” di quell’opera che meritava in pieno il titolo del suo commento,“Poesia di un giardino diffuso” o, al limite,anche quello di “Primavera a Capracotta”; una stagione quest’ultima che, nonostante i cambiamenti climatici, non sorprende arrivi più tardi in alta montagna rispetto alle località di pianura e soprattutto a quelle costiere.
Ho già fatto cenno, in altri racconti, alle varietà di fiori che tuttora sbocciano precocemente anche nel nostro paese: per esempio i bucaneve oppure i crochi di cui, appena fuori dall’inverno, si può ammirare un immenso tappeto nella radura di Prato Gentile. Tutti concordano, peraltro, che siano le violette selvatiche a segnare l’inizio verodella buona stagione e, mentre sto scrivendo, ho l’impressione di rivivere l’incredibile sensazione odorosa che questi umilissimi fiori diffondevano anche a distanza: quasi da restarne storditi!
Ancora una volta perciò, sempre con tanta emozione, mi sono tornati in mente i versi di Pablo Neruda nella sua poesia intitolata “Ode a un ciuffo di violette”:
“Crespo mazzolino sommerso
nell’ombra:
gocce d’acqua violetta
e luce selvatica
crebbero con il tuo aroma:
una fresca bellezza sotterranea
salì con i tuoi bocci
e fece sussultare
i miei occhi e la mia vita…”.
Mi farebbe ora tanto piacere descrivere in termini scientifici le caratteristiche botaniche delle viole selvatiche ma, com’è comprensibile, non credo proprio che riuscirei a farlo come l’argomento richiederebbe; mi limito perciò a ricordare che la specie definita “Viola odorata” ha foglie a forma di cuore con fiori di colore viola – blu, ma alcune delle tante varietà hanno anche fiori bianchi o gialli. Ricordo poi che esse hanno tendenza a diventare invasive, spuntando quasi ovunque a formare estesi tappeti ma sottolineando che a Capracotta il terreno a loro più favorevole era certamente quello della cosiddetta “Guardata”: un tempo nient’altro che un grande pascolo su cui, ormai da tanti anni, è stato appunto realizzato il “Giardino della Flora appenninica”; era questa, perciò, la nostra “serra esclusiva” in cui da ragazzi attingevamo a piene mani raccogliendo, ogni giorno di maggio, ciuffi di viole da regalare alle insegnanti della scuola elementare o da offrire alla Madonnina nel nostro piccolo Santuario.
Nel susseguirsi dei ricordi ho avuto ancora piacere di rileggere un commovente racconto del compianto amico Domenico Di Nucci pubblicato sul libro “A la Mereca” e intitolato “Quel mazzo di violette della ‘Guardata’”; vi si narra della dolorosa separazione avvenuta in una famiglia di emigranti per cui una giovane donna, quasi sempre vissuta a Capracotta con i nonni mentre i genitori erano andati a cercare lavoro oltreoceano, si vide riportare dall’America un mazzo appassito di violette che aveva raccolto e regalato alla madre tanti anni prima.
E, su questo tema, mi piace aggiungere il bellissimo ricordo personale di un episodio che, ancora una volta, ho vissuto insieme alla nonna Guglielma; pur essendo ancora abbastanza piccolo infatti, volle una volta che l’accompagnassi per una passeggiata …alla Guardata perché era venuto a farci visita da Bologna un suo cugino sacerdote, grande appassionato di montagna, unitamente a una sua nipote. Era una bellissima e tiepida giornata di maggio in cui si camminava letteralmente su un tappeto di violette che io raccoglievo felice: nell’unico cruccio di non avere un cestino in cui collocarle. A un certo punto, essendomi un po’ allontanato dal gruppo mi sorprese, anzi mi spaventò moltissimo il balzo improvviso di una grossa lepre da uno dei tanti cespugli di rovo: al punto da farmi, istintivamente, gridare facendo persino temere che mi fossi fatto male in qualche modo.
A questo punto è davvero superfluo confessare che morirei dalla gioia se, già domani, potessi tornare a raccogliere quelle violette della Guardata per inebriarmi, ancora una volta, del loro profumo; essendo certo che non mi lascerò tentare da quelle coltivate, bellissime ma sofisticate, che ora riempiono i negozi di fioraio.
Preferisco affidarmi di nuovo alle parole di Pablo Neruda, nella consolante speranza di mitigare il mio dispiacere:
“…immergo nella tua bellezza
il mio vecchio viso
e qualcosa della terra
tu mi trasmetti,
e non è solo un profumo,
non è il solo grido
del tuo colore: quello della rugiada…” .
Aldo Trotta

